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GIÀ RISCHIARANDO DI bagliori il giorno, Lucifero aveva disperso le tenebre: cadde l'Euro e umide si alzarono le nubi. Un placido Austro permise a Cèfalo di prendere con gli uomini di Èaco la via del ritorno e di raggiungere, prima del tempo, il porto a cui tendevano, col favore del vento. E ciò mentre Minosse devastava le coste dei Lèlegi e saggiava la forza del proprio esercito contro Alcàtoe. Era, Alcàtoe, la città di Niso, che alto sul capo,
fra la sua canizie venerata, aveva un capello acceso di rosso, simbolo del proprio immenso potere. Per la sesta volta era sorta ad oriente la falce della luna e ancora incerte erano le sorti della guerra: da tempo ormai tra l'una e l'altra schiera volava indecisa la vittoria. A ridosso delle mura (ricche di suoni, perché, si diceva, il figlio di Latona vi aveva posato la sua cetra d'oro, trasmettendone la voce alle pietre) c'era la torre del re. In cima a questa era solita salire sua figlia, per battere con un sassolino, quando ancora c'era la pace, quelle pietre armoniose; ma di lassù, ora in piena guerra, guardava incantata lo svolgersi cruento degli scontri. E ormai, per il protrarsi della guerra, conosceva il nome dei capi, le armi, i cavalli, le divise e le faretre cretesi; ma prima degli altri e più del necessario, conosceva l'aspetto del condottiero, del figlio di Europa. A suo giudizio, se Minosse nascondeva il capo sotto un elmo irto di penne, era bello col cimiero; se imbracciava uno scudo tutto riflessi d'oro, stava bene con lo scudo. Se aveva, tendendo il braccio, scagliato un giavellotto smisurato, la fanciulla esaltava l'eleganza legata alla forza; se piegava un arco enorme con la freccia incoccata, lei giurava che, i dardi in mano, così s'atteggiava Febo; se poi, togliendosi l'elmo di bronzo, scopriva il suo volto e avvolto di porpora cavalcava su gualdrappe colorate un bianco cavallo, governandone la bocca schiumante, allora a stento, sì, a stento la vergine figlia di Niso non impazziva: chiamava fortunato il giavellotto che lui toccava, fortunate le redini che impugnava. L'impulso suo, se avesse potuto, sarebbe stato d'introdursi, lei, una fanciulla, tra le schiere nemiche; o quello di gettarsi dalla cima della torre nell'accampamento cretese, di aprire al nemico le porte di bronzo, o di fare qualsiasi cosa Minosse volesse. E mentre se ne stava lì a contemplare seduta le candide tende del re di Dicte: «Devo rallegrarmi o dolermi», disse, «che si faccia questa guerra luttuosa? Non so: mi dolgo perché Minosse è un nemico che amo, ma se non ci fosse questa guerra, l'avrei mai conosciuto? Però, se mi prendesse in ostaggio, potrebbe deporre le armi: avrebbe me come compagna, me come pegno di pace. Se la donna che t'ha partorito era bella come te, che sei del mondo il più bello, è giusto che di lei s'invaghisse un nume. Tre volte felice sarei, se librandomi in volo potessi posarmi nell'accampamento del re di Cnosso e, rivelandogli chi sono e il mio amore, chiedergli qual prezzo vorrebbe per essere mio, purché non esigesse la mia patria. Sfumino pure le nozze sospirate, piuttosto che ottenerle col tradimento! Anche se a volte la clemenza di chi vince, per la mitezza sua, finì per favorire i vinti. Giusta è certo la guerra che conduce per vendicare suo figlio, forte è la sua causa, forti le armi con cui la difende, e temo proprio che ci vincerà. Ma se per la città la sorte è segnata, perché dovrebbe essere Marte ad aprirgli le mura e non il mio amore? Meglio che vinca subito, senza stragi e senza versare una goccia del suo sangue. Almeno non tremerò al pensiero che qualche folle ferisca il tuo petto, Minosse: chi mai così crudele sarebbe di scagliarti allora contro, sapendo chi sei, un'asta mortale? L'idea mi piace, è un fatto: sono decisa a consegnargli me stessa e la mia patria in dote per porre fine alla guerra. Ma volerlo non basta: sentinelle vegliano gli accessi e le chiavi delle porte sono in mano a mio padre: solo lui, ahimè, io temo, solo lui ostacola il mio piano. Volessero gli dei che fossi senza padre! Ma ognuno, lo sai, è dio di sé stesso e la fortuna sprezza le preghiere dei vili. Un'altra donna, arsa da una passione come la mia, avrebbe da tempo rimosso con gioia ogni ostacolo all'amore. E perché un'altra dovrebbe avere più coraggio? Tra fiamme e spade saprei senza viltà gettarmi; ma qui fiamme e spade son fuori luogo; a me serve solo un capello di mio padre, prezioso per me più dell'oro: quel capello color porpora mi renderà felice, facendomi ottenere ciò che sospiro». Mentre parlava, sopraggiunse la notte, nutrice incontrastata delle passioni, e con le tenebre crebbe l'audacia. Era l'ora del riposo, l'ora in cui il sonno invade la mente stanca dei diuturni affanni. In silenzio lei s'insinua nella camera paterna e al padre proprio lei, la figlia, strappa (che delitto, ahimè) il capello fatale e, impadronitasi di quella preda infame, fugge come un fulmine, stringendola a sé. Uscita dalle mura, avanzando tra i nemici (tanto è sicura d'essere elogiata!), giunge al cospetto del re e a lui, che la guarda sbalordito, dice: «Al delitto mi ha spinto l'amore. Io, Scilla, figlia di re Niso, ti consegno la patria mia e le divinità del focolare. Non chiedo premio all'infuori di te! Prendi come pegno d'amore questo capello di porpora, e sappi che non un capello ti offro, ma la testa di mio padre!». E con la destra gli porge quel dono scellerato. Di fronte a questo Minosse si ritrasse e, sconvolto alla vista di quel fatto inaudito, rispose: «Che gli dei, o infamia del nostro tempo, ti bandiscano dal loro mondo e a te si neghino la terra e il mare! Non tollererò che un mostro come te metta piede a Creta, no, a Creta che è la culla di Giove e il mondo mio!». Così disse; e dopo avere imposto ai nemici, che si erano arresi, le condizioni che ritenne più giuste, ordinò che si sciogliessero gli ormeggi alle navi da guerra e ai rematori di prendervi posto. Quando Scilla vide le navi far vela solcando il mare, senza che il condottiero la premiasse per il suo misfatto, esaurite le preghiere, fu presa da una collera violenta e tendendo furibonda le braccia, coi capelli scarmigliati: «Dove fuggi,» gli gridò, «abbandonando chi t'ha soccorso? Alla mia patria, a mio padre io t'ho preferito! Dove fuggi, rinnegato, tu che hai vinto solo per colpa e merito mio? Non il dono che ti ho dato o il mio amore t'hanno commosso, neppure il pensiero che tutte le mie speranze in te erano riposte! Dove vuoi che vada così reietta? In patria? Giace sconfitta; ma se anche non lo fosse, mi è preclusa, perché ho tradito! Tornare al cospetto di mio padre, che io ti ho consegnato? I cittadini mi odiano, e con ragione; i vicini temono il mio esempio: tutto il mondo mi sono preclusa, perché solo Creta mi si potesse aprire. Ma se anche questa tu mi vieti e, ingrato, m'abbandoni, tua madre non è stata certo Europa, ma la Sirte inospitale, le tigri dell'Armenia o Cariddi flagellata dall'Austro. E non sei figlio di Giove; da una chimera di toro tua madre non fu rapita: la storia della tua nascita è una favola. A generarti fu un toro, sì, ma un toro vero, feroce, e non certo innamorato d'una giovenca! O Niso, padre mio, puniscimi! E voi mura che ho tradito, godete, godete della mia sventura! L'ammetto, non merito che la morte. Ma almeno mi sopprima chi ha subito veramente la mia empietà. Perché tu, che grazie alla mia colpa hai vinto, pretendi di punirla? Per mio padre e la patria questa è un delitto, per te una grazia. Davvero ti è degna compagna chi ti ha tradito con un toro in calore, abbindolato da un simulacro di legno, e nel ventre si è portata un feto mostruoso! Ma alle tue orecchie giunge la mia voce? O i venti, come spingono le tue navi, se la portano via, priva di senso per quell'ingrato che sei? Ormai, no, non è incredibile che Pasìfae t'abbia preferito un toro: ben maggiore è la tua ferocia. Sventurata me! Comanda ai suoi di affrettarsi, l'onda sollevata dai remi scroscia, e con me la mia terra svanisce ai suoi occhi. Ma non ti servirà; invano cerchi di scordare i meriti miei! Se anche non vuoi, io ti seguirò: avvinghiata all'ansa della poppa, lungo il mare mi farò trascinare!» E subito si getta in acqua, inseguendo le navi con la forza che le accende la passione, finché, sgradita compagna, si aggrappa alla chiglia del re cretese. Quando suo padre, che, ormai trasformato in aquila marina, si librava con ali fulve nell'aria, la vide, si lanciò per straziarla col becco adunco, appesa com'era.