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Il grande corridoio che conduceva all'ufficio dell'avvocato Erica Cavitolo era un tripudio di lusso, luce e superfici riflettenti. Ogni cosa veniva lucidata con vigore ogni mattina da mani sapienti ed esperte, portando al maggior splendore ogni piccolo lampadario che scendeva dal soffitto, le curve intarsiate dei bracci di legno delle poltrone, i piedini accuratamente lavorati dell'enorme cassettiera di mogano che riempiva buona parte della parete di sinistra. Persino i colori che arricchivanno i muri sembravano riflettere la luce che li colpiva e che proveniva da due grandi finestre che si aprivano sulla parete di destra e in fondo al corridoio. Nonostante quell'ampollosa bellezza, il luogo appariva quasi spartano, privo di calore umano.
Poteva benissimo passare per l'ennesimo set cinematografico, facilmente adattabile a più possibilità scenografiche; quasi come se fosse un posto privo di anima.

Aurora bussò alla porta, finemente lavorata in vetro colorato, e attese che la persona al di là di quella la invitasse a entrare nella stanza.
-Erica è nello studio?- domandò qualche secondo dopo, rivolgendosi alla segretaria seduta dietro la scrivania, al suo fianco. Era una donna minuta; indossava sempre abiti dai colori neutri e un paio di occhiali da vista dalle lenti dal taglio quasi affilato, che le rendeva lo sguardo tagliente, restituendole un'espressione forse eccessivamente seriosa, in netto contrasto con le labbra carnose, morbide e tinte spesso di un rossetto di un pallido colore rosa che sembrava rendere ancora più dolce il suo frequente sorriso.
-Sì, ma lo sai com'è fatta- disse la segretaria, rivolgendo all'altra il sorriso che si aspettava e che Aurora fu pronta a ricambiare immediatamente. -Se entro cinque minuti non ti dà segni di vita, bussa di nuovo- la giovane annuì alle parole della donna e attese come le era stato suggerito di fare.

Era impaziente, timorosa che, proprio quel giorno, il suo capo avesse deciso di rivelarsi una donna meno sensibile ed empatica del solito: sapeva bene di avere rischiato grosso assentandosi per una intera settimana dal suo lavoro, soprattutto quando si trovava in piena corsa per la promozione per cui sgobbava e sognava da anni. Sentì la tensione stringerle lo stomaco in una morsa dolorosa e la nausea salirle in gola: ebbe un leggero capogiro e comprese che, se proprio non voleva vomitare sul pavimento dell'ufficio della Cavitolo, le sarebbe convenuto darsi una calmata. "È pur sempre Erica, Cristo!, quanto può essersi inacidita in una settimana?", pensò, sentendo il cuore accelerare i battiti. Probabilmente, convenne Aurora, stava lì a torturarsi mentalmente senza neanche il sentore lontano di una vera minaccia. Trasse un sospiro e bussò nuovamente alla porta: finalmente, qualcuno le rispose e la ragazza fece il suo ingresso nella stanza.

Venne accolta dall'inconfondibile e nauseabondo profumo alla lavanda con cui Erica era solita riempire il suo ufficio tramite la disposizione di grossi mazzi di fiori, in vasi di vetro, sparsi un po' dappertutto, finanche utilizzando deodoranti per ambienti con la stessa profumazione. Si portò una mano davanti al viso, assottigliando lo sguardo e trattenendo a stento una smorfia di disgusto.
La stanza era ampia e, a parte i fiori con tutto il loro incantevole colore viola e il profumo molesto che emanavano, si presentava abbastanza minimalista e asettica. Tolti i vasi stracolmi, sarebbe potuto passare per il solito, anonimo ufficio da rivista, di quelli che danno da pensare: "Oh! Che bello! Quanto costa? Cosa?! Ma chi cazzo lo vuole più!" e subito dopo dimenticarlo senza alcun rimorso.

-Aurora Parisi!- esclamò la donna mentre le andava incontro, ancheggiando sensualmente e stendendo le braccia nella sua direzione. -Dio mio, ragazza!, come stai?- le domandò Erica, avvicinandosi a lei e fermandosi a un paio di passi di distanza: prese ad accarezzarle le braccia con lenti e studiati movimenti, per poi chinarsi su di lei dall'alto delle sue scarpe dal vertiginoso tacco, abbracciandola con un trasporto che male celava tutta l'accurata preparazione di ogni suo singolo gesto.

Aurora si lasciò avvolgere dall'abbraccio del suo capo, cercando di non stringerla troppo: le piacevano gli abbracci, parecchio, ma trovava poco professionale strizzare il proprio superiore come se fosse un amico, un parente o un amante. Erica, però, non sembrava del suo stesso avviso e finì per sprimacciarle i seni contro i propri, riempiendole le nari con il suo fortissimo profumo di Zagara: era la profumazione più classica tra quelle siciliane e lei la conosceva bene perché uno dei suoi zii era sposato con una donna originaria di Catania; così aveva scoperto che quasi ogni persona siciliana poteva vantare di aver avuto una madre, una nonna, una zia, ... qualcuno tra le sue parenti, in passato, consumatrice affezionata di tale prodotto.

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