Capitolo 10

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I raggi del sole che filtravano dalle tende annunciarono a Yael che era già mattina inoltrata. Dalla strada salivano delle grida che rendevano impossibile dormire perciò, sia per tutto quel rumore, sia per la luce che aveva inondato la stanza da letto, Yael si rassegnò ad aprire gli occhi. Si stropicciò le palpebre, cercando di capire da dove provenisse tutto quel baccano; poi, controvoglia, si alzò, gettò il pigiama sullo scendiletto e si vestì. Dalla strada saliva un insopportabile frastuono, ma Yael era ancora troppo addormentato per dare peso alla cosa. Aveva il cuore pieno di tristezza per come si era svolto l'incontro di ieri con Mara e, sentendosi lo stomaco chiuso come in una morsa, non provava nessun appetito. Non voleva scendere a fare colazione: desiderava solo riuscire a smettere di pensare al viso di Mara, e si aggrappò al pianoforte per cercare di lenire il dolore di quel ricordo. Sedutosi alla tastiera, le sue mani cercarono una disperata via di fuga, intonando l'accordo iniziale della "Patetica". Le grida che venivano da fuori erano però insopportabili, e Yael non riuscì a concentrarsi: con tutto quel rumore era impossibile leggere la complessa partitura del primo movimento e, suo malgrado, dovette interrompere l'esecuzione. Scocciato, Yael si affacciò alla finestra per capire che cosa stesse succedendo e la scena che vide gli tolse il fiato dal petto. Yael vide dei militari tra le siepi di lavanda, nel giardino di casa sua, e una camionetta parcheggiata nel vialetto. Quando si accorse di quello che stava succedendo, il sangue gli si gelò nelle vene: suo padre urlava mentre un militare lo stava trascinando fuori di casa. Il suo anziano genitore si dimenava, ma tutti i suoi tentativi di opporsi furono vani, perché un altro soldato lo afferrò per le braccia e in due lo caricarono sotto il telo mimetico del cassone. Sbalordito per la scena a cui aveva assistito, Yael non fece in tempo a chiedersi se stesse sognando o fosse sveglio, che la porta della stanza si spalancò. Spaventato, Yael si girò, rimanendo a bocca aperta. 

«Ci si rincontra, ebreo» ghignò Stefano, appoggiando una mano sulla coda del pianoforte «hai fatto i tuoi esercizi?» Era tanto che Yael non si trovava a faccia a faccia con il vecchio amico, e il giovane pianista fece quasi fatica a riconoscerlo: ...

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«Ci si rincontra, ebreo» ghignò Stefano, appoggiando una mano sulla coda del pianoforte «hai fatto i tuoi esercizi?» Era tanto che Yael non si trovava a faccia a faccia con il vecchio amico, e il giovane pianista fece quasi fatica a riconoscerlo: Stefano aveva il viso solcato di rughe e, con indosso quella spaventosa camicia nera, sembrava più vecchio di molti anni. Il suo modo di fare appariva ancora più strafottente del solito, e quel ghigno che gli deformava il volto gettò Yael in un profondo sconforto: il giovane pianista si chiese che fine avesse fatto il suo vecchio amico, e chi fosse questa persona che si trovava davanti a lui, adesso. «Che cosa significa tutto questo?» chiese impaurito Yael «che cosa state ...», ma le urla isteriche di sua madre che risuonarono dal piano di sotto gli spensero le parole sulle labbra. «Mamma ...» piagnucolò Yael, e provò a correre verso la porta. Il fascista, però, lo afferrò per un braccio; il gracile ebreo tentò di svincolarsi, ma la colluttazione fu a senso unico: Stefano lo buttò sul tappeto senza sforzo. Il militare richiuse la porta alle sue spalle, mentre il giovane pianista si massaggiava il braccio dolorante; cercando con lo sguardo qualche oggetto pesante con cui difendersi, si accorse della menorah appoggiata sulla mensola accanto agli spartiti. «Non fare stupidaggini» lo ammonì il fascista, come se avesse intuito le sue intenzioni «se gli altri soldati ti sentono, sei condannato: che cosa pensi di poter fare, tu solo contro di tutti?» «Che cosa state facendo?» chiese Yael, abbassando la voce «come vi permettete di entrare in casa nostra, così?» Stefano lo guardò sorpreso. Intuì che davvero l'amico non aveva idea di cosa stesse succedendo. «Si può sapere dove vivi?» gli chiese stupito «possibile che non lo capisci?» Il giovane ebreo lo guardò stralunato, come se fosse appena caduto sulla terra da un altro pianeta. Il motore di un'automobile rombò in giardino. Il fascista scostò la tenda per spiare fuori dalla finestra. Una Kubelwagen aveva parcheggiato nel vialetto della villa: era la macchina di servizio dell'odioso tenente Möller. Il gerarca doveva essere passato per supervisionare la retata. Stefano capì che non gli rimaneva molto tempo, se voleva impedire a Yael di fare una brutta fine. «Non hai un posto dove nasconderti, in questa stanza?» chiese il militare all'amico «sotto il letto, nell'armadio?» L'ebreo lo guardò confuso, senza riuscire a capire. «Nascondermi?» balbettò Yael «perché dovrei farlo, perché state arrestando i miei genitori?» «Non leggi giornali?» Stefano guardò l'amico senza riuscire a nascondere lo stupore «non senti la radio?» «Perché?» chiese il ragazzo frastornato «si può sapere che cosa volete da noi?» Stefano alzò gli occhi al cielo, poi scosse la testa. «La legge è stata approvata» gli spiegò, con lo stesso tono di chi si stesse rivolgendo a un bimbo piccolo «ci hanno ordinato di prendervi tutti.» «Tutti, chi?» chiese Yael, e in cuor suo gli venne quasi da ridere: forse quella manica di bifolchi al governo aveva finalmente deciso di farla finita con la cultura, ordinando di arrestare chiunque fosse coinvolto in un'attività artistica? «Tutti voi ebrei» specificò Stefano. Yael sentì la testa girargli. «Parli delle leggi razziali?» chiese, incredulo. Tutto a un tratto, il mondo sembrò crollargli addosso. Si sentì un rombo di motore. Il fascista controllò ancora fuori dalla finestra. Il tenente delle SS era entrato nella villa e l'attendente aveva messo in moto, uscendo dal giardino. «È una cosa senza alcun senso» esclamò l'ebreo, provando a protestare, anche se adesso si sentiva troppo sconvolto dalla situazione. Gli sembrò incredibile che una cosa del genere stesse succedendo davvero, ma le strazianti grida di sua madre lo convinsero della realtà di questi momenti. «Che cosa state facendo ai miei genitori?» chiese Yael, quasi senza fiato. Stefano non rispose. Si guardò intorno, studiando la stanza: erano gli ultimi secondi che aveva a disposizione per salvare il suo vecchio compagno di giochi da una fine terribile. All'improvviso, strinse il suo amico per il braccio e lo spinse verso il muro. «Che cos'è quella?» gli chiese, concitato, indicando una porta quasi invisibile perché coperta dalla stessa carta da parati a gigli della tappezzeria della stanza. «E' un sottotetto dove mia madre tiene delle scope e alcune vecchie cianfrusaglie» rispose Yael, con la voce spezzata dal panico crescente. «Nasconditi lì dentro e rimani in silenzio» gli ordinò il fascista. Rendendosi finalmente conto della situazione, l'ebreo corse ad accovacciarsi nello sgabuzzino e chiuse la porta, con le ginocchia tremanti. Stefano fece appena in tempo a richiudere la porta dello sgabuzzino, che sentì il rumore di alcuni passi che salivano sulle scale. Stefano corse fuori dalla stanza, correndo incontro al tenente che stava camminando sul pianerottolo per intercettarlo. «Ne manca ancora uno» disse l'ufficiale delle SS, lapidario. «Ho controllato tutte le stanze, ma non c'è più nessuno» rispose Stefano, cercando di usare il tono più convincente che riuscisse. Il nazista non sembrò convinto e chiese a quel giovane sottotenente italiano ulteriore conferma se avesse ispezionato le camere con attenzione. «Sì, certo» rispose Stefano, con voce sicura «in ogni caso, conosco l'ebreo che manca all'appello: è un musicista, un poco di buono.» Stefano scosse la testa. «Si sarà ubriacato addormentandosi da qualche parte; probabilmente, lo troverà la ronda su una panchina del parco.» «Che schifo» commentò il tenente «che esseri vergognosi.» Yael sentì la porta della stanza che si chiudeva e si strinse la testa tra le ginocchia, per non sentire sua madre che urlava dal piano di sotto. Dopo qualche minuto, il frastuono cessò. Prendendo coraggio, Yael uscì dallo sgabuzzino e sbirciò da dietro la tenda: Stefano e alcuni fascisti stavano fumando in giardino. Quando ebbero finito, gettarono i mozziconi di sigaretta dentro le siepi di lavanda, e salirono sulla camionetta, che mise in moto. Il gruppo di militari abbandonò il vialetto del giardino, portandosi via i suoi genitori senza che lui potesse sapere dove. Nella villa ritornò il silenzio come se nulla fosse successo: l'unico rumore che ora si sentiva, era il ticchettio del pendolo in corridoio. Il giovane ebreo scese le scale ondeggiando come se fosse stato ubriaco. Gli girava la testa e una violenta nausea continuava ad assalirlo. Entrato in cucina, pensò che non potesse essere successo davvero. Sicuramente, si era trattato solo di un brutto incubo. Adesso, sua madre lo avrebbe salutato come tutte le mattine, rimproverandolo per essersi alzato tardi, e gli avrebbe messo l'acqua per il tè sul fuoco a bollire. Quelle mura, invece, lo accolsero vuote e silenziose. C'erano piatti sporchi nel lavello, sul tavolo un mucchio di patate e una pagina di giornale piena di bucce. Yael raddrizzò una sedia di paglia rovesciata sul pavimento. Sentì come se il pavimento si stesse aprendo sotto i suoi piedi. «Mamma ...» piagnucolò impotente. Non era un sogno. Era successo proprio adesso, lì, nella loro casa.

I silenzi del pianoforteDove le storie prendono vita. Scoprilo ora