PROLOGO

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Mi sembra strano trovarmi qui, nella sala d'attesa di un ospedale, mentre mia moglie, al di là di quella porta, urla e impreca da quasi due ore, perché mio figlio non vuole saperne di nascere. E mi viene da ridere, perché lei ogni volta che dico qualche parolaccia mi schiaffeggia.
Ci siamo conosciuti quando avevo ventisette anni, consegnavo le pizze a domicilio e la paga era misera, lei mi lasciò una mancia spropositata. Da quel giorno, ogni sabato ordinava la pizza e chiedeva che fossi io a portargliela.
Una sera ne ordinò due, credevo che avesse compagnia, perché appena suonai il campanello lei mi venne ad aprire  indossando un abito nero elegante, quasi interamente di pizzo, e suoi occhi erano lievemente bistrati di nero ed evidenziavano le sue iridi azzurre, i suoi capelli erano una cascata di boccoli color cioccolato, era la creatura più bella che avessi mai visto dopo tanti anni e mi ritrovai ad arrossire quando mi accorsi che le stavo fissando la scollatura più del dovuto.
Lei sorrise, invitandomi ad entrare, aveva una dentatura un po' irregolare, ma i denti erano bianchissimi e le sue labbra né troppo sottili, né troppo carnose, rese più rosse dal rossetto, sembravano così morbide e mi ritrovai involontariamente a fantasticare sul loro sapore, chiedendomi quale gusto avessero.
Passammo l'intera serata e gran parte della notte a parlare, ridere, conoscerci.
Il giorno dopo venni licenziato, perché le altre pizze non furono mai consegnate, ma guadagnai un appuntamento con Jenny.

Mi sembra strano trovarmi qui, nella sala d'attesa di un ospedale, nel giorno più importante della mia vita, pensando a qualcun altro. E mi viene da piangere, perché amo mia moglie e amerò il figlio che sta per nascere, ma non li amerò mai nello stesso modo in cui ho amato lui.
Non amerò mai nessuno in quel modo e mi sento egoista perché, nonostante lo ami ancora, ho voluto farmi una famiglia, ho voluto pensare che non fosse mai esistito ed è stato l'errore più orribile che avessi mai potuto commettere, lui si fidava di me, credeva che non l'avrei mai abbandonato, ma l'ho fatto. L'ho fatto nello stesso momento in cui ho accettato l'invito di Jenny di entrare in casa sua.
Ho tentato di dimenticarlo, infrangendo la mia promessa. Ma non potrò mai scordarmi di lui, è stato una parte essenziale della mia vita, una parte che in pochi conoscono. Una parte che ho tenuto nascosta a mia moglie, temendo che non avrebbe capito.

Mi sembra strano trovarmi qui, nella sala d'attesa di un ospedale, rivangando ricordi ormai sotterrati da troppo tempo, rimuginando sul passato e sulle numerose esperienze vissute. Nessuna più importante di quella. L'avventura più stramba e allo stesso tempo più normale, la più terribile e anche la più dolce. Quella che avrei dovuto odiare, ma che mi ha portato ad amare inconsapevolmente.
L'avventura dove conobbi colui che mi insegnò il significato della parola 'vita'.
Colui che mi ha insegnato a gioire delle piccole cose, perché non sai mai quando queste ti verranno strappate via con la forza di un uragano.
Colui che indossava una fredda maschera d'indifferenza, solo per non permettere agli altri di scalfire il suo cuore così fragile. Era tipico di noi essere umani: dimostrarsi forti, quando in realtà tutto ciò di cui abbiamo bisogno è una spalla su cui piangere.
Colui che ha protetto le persone che amava, diventando un mostro. E io, di quel mostro, ne ero innamorato.
Il suo nome? Toby.
Il mio nome? Alexander.

Ho trentasei anni, ne avevo ventuno quando lo conobbi.
Mi ero appena trasferito da Liverpool negli Stati Uniti, a Williamsburg, nel sud della Virginia, la crisi che aveva colpito gran parte dell'Europa era arrivata a Londra e mio padre era stato licenziato.
Facemmo i bagagli nel giro di un paio di giorni e mollammo tutto, a Williamsburg avevo degli zii, proprietari di un albergo, ci avrebbero tenuti lì finché avremmo raggiunto un po' di dipendenza economica.
Il mio sogno era sempre stato quello di laurearmi e fare l'insegnante d'inglese, ma avevamo bisogno di soldi e i fondi per pagarmi l'università non erano abbastanza. Così sia io che mia sorella rinunciammo ai nostri sogni, come qualsiasi adolescente che viene catapultato nel mondo reale.
Incominciai a lasciare in giro svariati Curriculum, anche nei posti in cui in vita mia non avrei mai pensato di dover mettere piede. Mi offrii di fare l'inserviente, più comunemente chiamato bidello, almeno sarei stato in una scuola anche senza insegnarci. Provai nei centri commerciali, nei bar, nei supermercati, lasciai i Curriculum anche negli ospedali, dicendo che avevo un bisogno disperato di un posto di lavoro.
Nessuno mi voleva, ero giovane e senza esperienze lavorative, finché un giorno, dopo mesi di inutile attesa, quella telefonata cambiò la mia vita.

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