PROLOGO

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Era un lunedì qualunque quando William, ancora bambino, decise che svegliarsi presto per andare a vedere quali novità portava il postino sarebbe stata la sua nuova buona abitudine.
Di buone abitudini Will ne aveva già tante: si lavava i denti con regolarità, non buttava cartacce per terra come gli era stato insegnato, faceva sempre i compiti dopo pranzo e andava a coricarsi presto la sera. Quando notava del maltempo appena fuori dalla porta di casa, Will afferrava il suo ombrello preferito e lo apriva, coprendosi velocemente la testa; in questo modo, di certo, non poteva vedere il cielo che si rabbuiava e si preparava a buttare giù chissà quante gocce d'acqua. Poteva solo sentirlo mentre, ogni tanto, rombava e si lamentava con qualche lampo di luce gettato qua e là.
Tuttavia, che tirasse vento o che splendesse il sole, correre sul vialetto di casa sotto la luce dell'alba per prendere il giornale che un gentile postino gli porgeva ogni mattina restava in assoluto la buona abitudine preferita di Will.
Dopo aver preso quell'ammasso di fogli arrotolati che odorava d'inchiostro e novità, rientrava in casa, tutto felice, sotto lo sguardo allegro di sua madre che, dalla finestra della sua camera, lo osservava sorridente.
Anna, dolce donna, era solita dargli molta fiducia anche nelle piccole cose, perché ormai Will stava crescendo e stava "diventando un ometto".
"Vilmos!" lo salutava ogni mattina, indossando la sua vestaglia da notte mentre iniziava a preparare la colazione per tutti. Allora a Will veniva spontaneo chiedersi: ma perché Vilmos? Lui si chiamava William, e chiamarlo in Ungherese di certo non era la stessa cosa. Ma la sua mamma amava la propria terra natia, e cercava sempre di mantenerne vivo il ricordo, quindi Will faceva finta di nulla: l'importante era che lei fosse felice, giusto?
Dopo aver terminato il suo rituale mattutino, Will si sedeva a tavola contento, la divisa della scuola indossata ancor prima dell'arrivo del postino, e apriva le pagine di quel giornale più grande di lui. Leggeva i titoli, i sottotitoli, le notizie. Non ne capiva molto di economia e di politica, ma lui ci provava lo stesso - anche se, in verità, si soffermava di più sui disegni e sulle foto che venivano stampate su quei fogli di carta sottili, osservava le belle lettere a caratteri eleganti che venivano impresse all'inizio di ogni titolo, specialmente quello sulla prima pagina. Ogni tanto il giornale cittadino inseriva anche qualche gioco, che sicuramente William apprezzava molto di più.
Mentre cercava di assorbire quante più notizie poteva, passi cominciavano a risuonare lungo le scale che portavano al piano superiore, prima che suo padre, Attilio, comparisse sulla porta della cucina, giacca elegante e cravatta ben annodata.
"Guglielmo!" iniziava a ridere, prima di prendergli dolcemente il giornale dalle mani, i baffi neri che si incurvavano morbidi sopra la linea delle labbra sorridenti. Ma poi, perché Guglielmo? Il suo nome era William - doppia w maiuscola, i, doppia elle, i,  a, emme - ma il suo papà lo chiamava sempre Guglielmo, non importava quante volte Will gli aveva ripetuto che si sbagliava. Alla fine, decise di lasciar perdere.
Attilio Taddei, ex pilota dell'aeronautica italiana, rimasto zoppo dopo aver quasi perso una gamba e con una moglie in dolce attesa, anni addietro, dopo essersi ritirato, aveva deciso di aprire una fabbrica di articoli sportivi con i risparmi della pensione e qualche vecchia conoscenza. Era molto orgoglioso del suo lavoro, e non si sforzava nemmeno di nascondere la cosa.
"Un giorno" diceva sempre, mentre inzuppava i suoi biscotti nel caffellatte, "figliolo, prenderai il mio posto come grande capo dentro la fabbrica!"
Allorché il ragazzetto storceva il naso mentre buttava giù un'altra cucchiaiata della sua colazione, e diceva: "Ma io voglio fare il giornalista!"
"E allora" continuava il padre, entusiasta, "un giorno potrai trasformare i miei articoli sportivi in tante, gigantesche stampanti! Che ne dici? Eh?", e rideva. Rideva sempre il suo papà. Non era un uomo che si scoraggiava facilmente, né lo si vedeva mai arrabbiato o amareggiato, nemmeno nelle situazioni più critiche. Allora William, contagiato da tanta allegria, sorrideva a sua volta mentre finiva di bere il suo succo, la testa già alle grandi stampanti e agli articoli che avrebbe scritto in futuro.

Raccontata in questo modo, la vita di Guglielmo, o William, o Vilmos, sembrava quasi una favola a lieto fine, perché avrebbe finito la scuola e sarebbe diventato un giornalista. Qual era il problema?
Nessuno - né lui né il suo alto papà che andava a lavoro indossando un cappello di feltro marrone - poteva certo vedere le nuvole nere che si iniziavano ad addensare sopra le loro teste, e forse è giusto così quando si è solo un ragazzino pieno di sogni e aspettative: tutto appare sempre più bello di come non sia in realtà.

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