Capitolo 8 - A casa di Can

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Di sera sono uscita alcune volte con Ayhan e Leyla in qualche discoteca del centro di Istanbul, però quasi sempre ho passato le sere nel mio caro quartiere, cenando con i miei amici in uno dei nostri ristoranti o passaggiando per la strada godendo delle stelle. Il quartiere di Can Divit, in cambio apparteneva a una città completamente differente. Era come addentrarsi in un castello di un re oscuro. C'erano ville con ampi giardini degni di palazzi dei sogni. Tuttavia, non ero andata fin lì per godere delle viste di un quartiere ricco, bensì per rubare una cartella di una proprietà privata. Se mi beccava la polizia, sarei al centro dei pettegolezzi dei vicini e i miei genitori morirebbero d'infarto.
Il signor Emre non mi ha dato le chiavi di casa, quindi penso come intrufolarmi. La casa di Can è come qualsiasi altra casa della zona. Non so che cosa aspettavo. Nell'ufficio si parlava di lui come un genio, uno spirito libero e forse la mia immaginazione mi ha portato a credere che fosse un'abitazione eccentrica, però è normale. Normale per la gente che accumula milioni di lire in banca.
Infine, decido di imitare le spie delle pellicole e salto il muro anche se manco di agilità e la discrezione di una ladra professionale. Quasi cado di faccia nel saltare nel giardino di Can. Per fortuna, appoggio le mani per non farmi male e subito dopo mi alzo. Corro verso la villa e entro in uno degli accessi del giardino. Davvero era così facile intrufolarsi in casa di un milionario? Qui di sicuro c'era un tipo di trucco.
Come mi ha promesso Emre, la signora delle pulizie ha lasciato la porta del giardino aperta e mi intrufolo da lì. Non so quanto tempo ho a disposizione prima che ritorni Can, quindi non devo perdere molto tempo. Vado in salone. Rovisto in un sacco di documentazione in una scrivania del soggiorno. Non c'è traccia della cartella rossa. Mi avvicino all'ingresso. Vedo la giacca di Can in un attaccapanni. Il mio battito accelera.
Sicuramente ritornerà in qualsiasi momento. Non andrà a correre per tutta la città.
Salgo le scale e entro in una stanza. Rovisto.
Trovo la giacca del signor Emre. Questa sarebbe la sua stanza quando viene in visita? Mi suona il cellulare grito impulsivamente.
Sanem: Dica?
Emre: Sanem hai recuperato la cartella? Mi dice il signor Emre. È curioso, sembra che lui è più nervoso di me.
Sanem: No, sono nella sua stanza. Ho appena trovato la sua giacca.
Emre: Si, ho provato a restare con Can, però avevo una riunione urgente, l'ho lasciata lì. Non ho potuto prendere la cartella, però ho visto come mio fratello la lasciava nello studio.
Sanem: Dove sta?
Forse posso uscire in meno di cinque minuti.
Emre: È una stanza che si trova in fondo al corridoio alla sinistra della cucina. Sai dove voglio dire?
Madre mia. Questa casa è un labirinto. Corro dove mi ha indicato il signor Emre. Salto all'intravedere la cartella rossa sopra ad un tavolo piena di foto e altre cose. Prendo la cartella, con la speranza di scappare da lì quanto prima, anche se la fortuna non mi sorride. Una strega doveva avermi portato sfortuna. Sento chiudere la porta d'entrata. Il signor Can canticchia una melodia con ritmo e ha acceso uno delle apparecchiature di musica del salone, perché la canzone risuoni in tutti i lati.
Cammino per nascondermi dietro un comò del corridoio, scrisciando mi nascondo in cucina. Sono una spia. Una ladra invisibile. Una piccola gattina che non ascolterà nessuno.
La casa di Can è la casa dalle mille porte, scappo in salone attraversando una di quelle.
Can: Chi c'è lì? Sento dire a Can
Non ho scelta. Lancio la cartella rossa in uno dei vasi cinesi del mio capo. Sicuramente sarà della Dinastia Ching o apparteneva a un'antica familia reale coreana. Tuttavia, per me è il canestro perfetto.
Can accende le luci. Mi vede. Provo a scappare. Forse se scompaio pensa che è stata un'allucinazione. Tuttavia, il mio capo incrocia il mio cammino. Ci scontriamo e mi abbraccia per evitare che scappo. Oh, Dio. Sento il suo sudore e noto i suoi muscoli contro di me. È come essere stata catturata da un predatore selvaggio e ancora mi sento sicura, come se non fosse la prima volta che mi abbraccia e mi consola.
Can: Sanem, che fai qui?
Sanem: Io...
OK. Ora deve pensare, se ho fortuna e non chiama la polizia, per dirgli che sono una pazza. Domani mi licenzieranno e mia madre mi farà un sermone di tre ore ben meritato, però devo fingere normalità perché gli devo al signor Emre un favore. Un favore con un valore di quaranta mila lire. E al pensare al mio altro capo, il mio cervello si sveglia. Sono una spia. Creare alibi è la mia routine. Dio, che non mi denunci. Per favore, chiedo solo questo.
Sanem: il signor Emre mi ha dato le chiavi di casa sua... No perché? Non me le ha date. Non servo neanche per mentire. Mi è caduto un oggetto personale in ufficio, quando ho macchiato di caffè la giacca del signor Emre. E siccome suo fratello è una brava persona, lui ha detto che me lo teneva mentre pulivo il disastro che avevo fatto. Però... Dopo mi sono vergognata ad avvicinarmi a lui. Perché la sua giacca è carissima e temevo che l'avrei rovinata.
Can non ride con sufficienza come al solito. È la prima volta. Sarebbe un bel cambio se non fosse perché sgrana gli occhi dubitando se chiamare l'ospedale psichiatrico o la polizia.
Can: Non capisco niente, Sanem. Di che parli? Cosa c'entra il caffè con tutto questo?
Sanem: È che il signor Emre ha tenuto quello che gli ho dato, un regalo di gran valore, nella sua giacca e l'ho chiamato perché non volevo ritornare a casa senza il regalo. Io.. Per favore... Mi dispiace molto.
Can torce le labbra. Che ridà. Che pensi che questo è molto grazioso e che sono solo una stupidina adorabile.
Can: Va bene. Vieni con me. Non ti preoccupare.
Lo seguo. È facile seguirlo dal suo odore virile. No. Concentrati Sanem. Mancano cinque secondi perché mi dica che non c'è bisogno che torni domani all'impresa. Entriamo nella stanza dove si trova la giacca del signor Emre e dopo aver rovistato brevemente nelle tasche, tira fuori la scatola di velluto. La apre e tutte e due vediamo un anello che deve costare di più di quello che prenderei io in un anno.
Can: Sei fidanzata, Sanem?
Sono fidanzata? Beh, il mio amico Muzzafer mi ripete sempre la storia che ci sposeremo. Aspetta, cavolo.
Sanem: Si... Mi sposerò. Sono molto felice. È un anello di gran valore.
Ho appena creato un imbroglio che mi costerà uscire.
Can: Congratulazioni. Mi dice il signor Can con troppa formalità. Can: chi è il fortunato?
Sanem: Il mio fidanzato? Evidentemente non mi andavo a sposare con mio padre. Sanem: questo è un amico di famiglia.
Nella mia mente si materializza un'immagine mia, vestita da sposa, di fronte all'altare, al punto di baciare Muzzafer. Quasi svengo e il signor Can rischia di abbracciarmi un'altra volta per sostenermi.
Sanem: Me ne vado. Per favore, non mi licenzi.
Non sono una spia. Devo uscire da qui quanto prima.
Can: Ovviamente che non ti licenzierò, Sanem. Dove vai?
Sanem: A casa mia.
Il muro così accogliente che circonda la casa di Can. È la libertà. Lontano dal mio attraente capo. No, Sanem mente chiara. Devo fingere normalità.
Per disgrazia, so che quando penso con freddezza quello che è successo questa sera, vorrei soffocarmi con il cuscino. Corro lontano del signor Can, che non smette di chiamarmi, e invece di uscire dalla porta come una persona normale, salto dal muro del giardino e in questa occasione si che mi faccio male cadendo.

"La Fenice e l'Albatros" la storia di Can e SanemWhere stories live. Discover now