Nulla finisce mai con il tempo

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La sera era quella giusta, la situazione anche.
Non bisognava preoccuparsi delle parole; quelle sarebbero venute fuori da sole. Avevamo fatto quella cosa mille volte, e ad ognuna giuravamo di dire qualcosa di nuovo.
Non c'era alcun punto di appoggio, stavolta, nessuna meta da superare: le due sdraio nel giardino all'italiana erano la promessa di un riposo eterno. Non ero mai stato in un giardino all'italiana tanto bello quanto il suo.
La sera stessa, Adriano mi avrebbe insegnato che nessun giardino era mai uguale agli altri, ma che era invece il modo di curarlo a decidere se chiamarlo italiano o inglese, o, ancora, giapponese. Per il suo, il senatore aveva voluto un viale che conducesse alle due sdraio di vimini; al suo centro, zampillava acqua dalla bocca di un'ancella immortalata nel marmo.
Sopra le nostre teste, ci guardava la luna.
Adriano avvicinò la sigaretta alle labbra e strinse forte, geloso persino dei suoi stessi vizi che, ne ero certo, avrebbe continuato a tenere tutti per sé. 

- Dove sei stato per tutto questo tempo? – mi domandò, l'indice a battere sulla sigaretta a privarla della cenere che il tempo aveva creato. Regnava il silenzio attorno a noi.
In lontananza, un orecchio allenato avrebbe riconosciuto le risa degli altri rincorrersi a vicenda; era estate, e non c'era nulla che ci impedisse di divertirci ancora un po'. I pini e i cipressi, sparsi un po' ovunque nel giardino perfettamente curato di un senatore dissoluto, segnavano i confini del loro mondo con il nostro: volevano farci capire che c'era un limite, che non era permesso spingersi oltre un certo punto. – Sono stato in camera a cercare di scrivere qualcosa di nuovo – ammisi.
- Cosa hai fatto per tutto questo tempo? – fece eco, come se le mie parole gli risultassero ormai indifferenti.
- Ho scritto -.
- Tu scrivi? -. Era come se l'idea di scrivere non gli andasse a genio, o comunque suonasse come qualcosa di nuovo nel suo universo. – Scrivo, hai presente scrivere? -.
- E cosa scrivi? Biglietti d'auguri forse? – sbottò, ridacchiando un po', e dentro di sé chiedendosi se la battuta facesse ridere anche me, ma la cosa non funzionò. Sentivo dal silenzio il rumore della sigaretta che bruciava con il vento. – Storie, quello che mi passa in testa, ecco cosa -.
- E che tipo di storie sono le tue? Fanno... fanno paura o sono storie d'amore? – continuò.
- Non ha importanza. Tutto quello che mi passa per la testa, questo scrivo; è tutto ugualmente importante per me – confessai, che intanto trovavo nella sdraio il riposo e la tranquillità che forse non avrei potuto ottenere altrove. – È tutto ugualmente importante – ripeté, dando il giusto valore ad ogni singola parola, mai banali per la bocca dalla quale venivano fuori. – Sai usare bene le parole quindi -.
- Io non so parlare. Quando parlo mi caccio sempre nei guai, sai?, sono sempre più sincero ed onesto del dovuto, e questo non va bene, perché sei sincero rischi di dire cose che agli altri non piacciono. Quando scrivo, invece, dico solo la verità – dissi, che in fondo ci credevo veramente.
- E quindi hai deciso di scrivere per raccontare la verità? Per non cacciarti più nei guai? -.
- Se vuoi vederla così... -.
Adriano osservò il mozzicone accorciarsi e sorrise. – Quando la gente legge qualcosa di tuo e sorride, beh, allora vuol dire che è vera; perché sei riuscito a scrivere qualcosa che la gente fa o vorrebbe trovare il coraggio di dire -.
- E così tu trovi sempre il coraggio di raccontare quello che la gente pensa; sai che potrebbe essere una gran bella trovata? -.
- Lo è – assicurai. – Scrivere per non cacciarsi nei guai... - ripeteva, come ammaliato da quel genere di trovata. I suoi occhi brillavano di una luce nuova. – Ci siamo mai cacciati nei guai, amico? – chiesi, sforzandomi, stavolta, di cercare il senso vero di quella parola, amico, che sapevo raccontava sempre qualcosa di nuovo quando rivolta a lui. – Quando non l'abbiamo fatto -.

Discutere con Adriano da solo era diverso che parlargli quando era in compagnia di altri.
Ho sempre come avuto l'impressione che certa gente desideri indossare, in presenza di ospiti, un abito in particolare e che, appena ne abbia la possibilità, se ne spogli, restando nuda e lasciando scoperta la parte vera di sé. C'è chi lo fa per necessità, e non soltanto per scelta. Finché ciò accade per scelta, va bene, ci può anche stare: ciascuno al mondo è libero di fare ciò che vuole, o almeno questo è quello che insegnano a tutti coloro che sentono di voler essere cittadini di qualcosa; ma quando questo accade per necessità, quando cioè una persona ha bisogno di dare una certa immagine in compagnia di ospiti e di essere tutt'altro in loro assenza, ecco che le cose si complicano, e allora quella persona o è un vigliacco, il che potrebbe non stupire, dato che il vigliacco è il mestiere che si pratica sin dalla notte dei tempi, oppure merita compassione, solo ed unicamente compassione; e tra le due soluzioni, sinceramente non saprei dire quale descrivesse meglio Adriano, se colui che merita di essere compatito o il vigliacco.
Lui è sempre stato debole dentro, come se in presenza di certa gente dovesse dare una immagine di sé, e in presenza di altri un'altra ancora, semplicemente perché non aveva ben chiaro in mente che tipo di immagine dare di se a se stesso: questo è stato il solo problema; e non ci si poteva fare niente.
Adriano era fatto così: a volte la grandezza e il nome di qualcuno nascondono le sue debolezze più grandi.
Indicò con la testa un punto lontano, dietro le nostre spalle, là dove le luci accese del terrazzo segnalavano la presenza degli altri. – Con gli altri è tutto diverso – ammise il mio amico, se ancora aveva un senso chiamarlo così. – Cosa è diverso? -.
- Loro sono diversi; non mi capiscono, lo vedi da te, parlano tutta un'altra lingua -.
- Mi fa piacere che ci siamo ritrovati – confessai. – Sai... io credevo che fosse tutto finito da tempo -.
- Non dire così – osservò Adriano, scuotendo la testa. – Nulla finisce mai con il tempo. Le persone le smarrisci per un attimo per la strada ma le ritrovi al traguardo. È questo il bello di potersi fidare di qualcuno... in fondo, non resti mai da solo – concluse.
Non l'avevo mai sentito parlare così. Le persone nascondono dentro di sé certa forza che lasciano venir fuori all'improvviso, nei momenti migliori, quando brilla la luna.
- Tu ti fidi di qualcuno? – domandai.
- In qualcosa devi pur credere; io credo nelle persone, mi fido di loro -.
- Io ho creduto in un amico; un'amicizia, valevano tutto per me – raccontai, e forse quella era una storia che anche il senatore conosceva bene. – Ma ho sbagliato, e me ne sono accorto tardi – le mie parole lo colpirono, e così chinò lo sguardo; questa fu la sua reazione, e valse più di altre parole. – Ho sbagliato perché mi sono affezionato troppo. Capisci, continuo a fare questo errore da una vita... potrò mai perdonarmelo questo? -.
- Come fai a dire di esserti affezionato troppo? -.
- Quando credi in qualcuno che non ricambia, allora hai sbagliato qualcosa -.
- Eppure ce l'hanno insegnato da piccoli: mai affezionarsi troppo, ricordi? -.
- Non è quello che mi hai insegnato tu – conclusi.
Si sporse oltre il bracciolo della sua sdraio e si appoggiò al mio; mi scrutò con fare inquisitorio, e poi mi chiese di dirgli cosa vedessi sul suo polso; si tirò su la camicia bianca e mi diede il tempo di controllare se vi fosse qualche segreto nascosto dietro l'abbraccio delle sue vene. – Allora! – sbuffò, innervosito dalla mia attesa e agitando il polso sotto il mio sguardo. – Cosa vedi? -. Cercavo le cicatrici che, in una vita passata, avevano segnato il nostro patto di sangue. Su quella pelle che non aveva più un odore, stavo ricercando quello del sangue di entrambi, versato per una causa comune. Un bracciale d'oro bianco testimoniava il suo nuovo status di senatore; al centro vi era incastonata una piccola piastra con sopra incise le sue iniziali: ero certo che Adriano sarebbe morto coltivando in eterno l'ossessione sfrenata di un amor proprio, quello stesso amor proprio che gli impediva di comprendere quello per gli altri.
- Non vedi niente? – domandò. Davanti a noi, nel grande giardino nero, un sentiero di ciottoli si diramava in altri cento. Quando la nostra discussione sarebbe terminata, avrei corso a piedi nudi tra i sentieri di ciottoli e ghiaia del grande giardino all'italiana, fino al luogo in cui la danza delle lucciole incontrava il sussurro dell'acqua della piscina. Giravano leggende su una piscina sul cui fondo erano state fatte incidere le iniziali del suo nome.

- Dimmi, dove sei stato per tutto questo tempo? – gli chiesi a mia volta, ripetendo la domanda che aveva fatto a me. Prese fiato e parlò. – Sono diventato senatore per caso, senza volerlo; ora della gente dipende da me. La sera, prima di dare la buonanotte a mia moglie, penso alle responsabilità che ora mi spettano.
Sono spaventato, penso a come potrebbero andare le cose se deludessi la fiducia che hanno riposto in me -.
- Tu sei venuto al mondo per comandarlo; la fiducia della gente potrai comprartela ogni giorno che aprirai gli occhi – gli assicurai. – Sei sempre stato diverso, amico. Cosa hai fatto per meritartelo? – gli domandai.
- Io non ho mai fatto niente di diverso -.
- Ci sarà gente che morirà ad uno schiocco delle tue dita; tu neppure conosci la forza che hai tra le mani -.
Si tolse il braccialetto e lo guardò alla luce della luna. Mi chiese di prenderlo per un po', e magari anche di tenerlo con me, se avessi voluto. Per quella sera, e solo per quella sera, unica forse, irripetibile certo, avrei potuto custodirlo io.
- Me l'ha regalato mia moglie non appena ha saputo che ero stato eletto senatore – raccontò.
Si era dimenticato della sigaretta, che intanto era andata via, con il vento, cenere tra la cenere.
- E ti piace? – gli chiesi.
- Si, ma mi stringe al polso. Qualunque cosa accada, fratello, non mollare mai la presa – mi confidò, e mi fece capire che quella era l'idea da tenere bene a mente. Mai mollare la presa: su questo aveva legittimato la presenza di statue di imperatori in corridoi bui e angusti. – Tu mi parli della tua vita da senatore, mi ospiti in questa villa dove hai nascosto busti in marmo e mi lasci bere dalla tua tavola. Sappi che io mi sarei accontentato di molto poco, non ti stavo chiedendo il mondo -.
- E se non è per il mondo che lotti, per qualcuno che ricordi il tuo nome quando di te non ci sarà che la cenere, se non è per questo che lotti, che senso ha continuare a combattere? -.
- Senatore, ricorda queste parole: il leone che è da esempio al proprio branco è quella che lascia vivere la preda un giorno di più. Impara delle piccole cose, lì troverai un mondo bellissimo che nessuno ha compreso mai, e magari non saranno bracciali o statue di marmo a comprare la tua felicità -.
- Io ti ho insegnato a non mollare mai la presa; dall'altro lato della fune troverai sempre qualcuno che tira più forte di te – insisteva.
- Saper mollare la presa è sintomo di saggezza, non di codardia; le battaglie migliori le vinci con la saggezza e l'astuzia, quando pensi e ragioni... come fanno i filosofi – sussurrai alle sue orecchie. Mi alzai dalla sdraio e mi portai le mani ai fianchi. Restai fermo, lo sguardo in alto, verso il cielo, a guardare oltre il buio della notte. Le prime nuvole cominciavano ad ammassarsi in cielo: presto avrebbe piovuto.
- Vado a farmi due passi nel giardino – dissi, salutando l'amico ritrovato e proseguendo dritto, nel grande giardino nero, non sapendo dove girare o continuare dritto. In fondo, andava bene così: perdersi era il primo passo per ritrovarsi.


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⏰ Last updated: Dec 05, 2019 ⏰

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doccia fredda (capitolo 4)Where stories live. Discover now