6 - Il primo giorno

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Fin dal primo giorno al Lager mi perdetti, cencioso, in quella folla di cenciosi.

Risuonava tutt'intorno uno strano scalpitio di zoccoli sul terreno. Erano colonne di deportati che correvano. Ai lati e dietro le colonne, uomini armati di bastone li spingevano avanti. Di tratto in tratto i bastoni cadevano con un colpo secco sulle spalle e sulla schiena di uno di loro. Poi, improvvisamente, tutto spariva e il rumore degli zoccoli cessava. Guardavo, ed eccoli tutti bocconi per terra. Poi si rialzavano e riprendevano la corsa attorno agli spiazzi delle baracche.

Si trattava dei quotidiani esercizi fisici che consistevano appunto nel correre, poi gettarsi a terra, rialzarsi, correre ancora, poi di nuovo a terra. Al comando di un soldato delle SS i movimenti dovevano essere immediatamente eseguiti. Il galoppo nella polvere durava ore e ore. Affannati, storditi, i disgraziati talvolta sbagliavano. Qualcuno cadeva a terra prima degli altri, qualcuno si rialzava prima, e l'inesorabile bastone nazista cadeva sulle sue spalle.

Dalla baracca numero 2, dove avevamo passata provvisoriamente la notte, ci fecero passare nella baracca numero 5. Il capo blocco del 5 era un vero demonio. Guardò me e i miei compagni come se avesse voluto divorarci. Ci tastò con le mani per tutto il corpo come per una perquisizione e ci disse:

"Il mio Block è completo. Non ci sono piú posti per dormire. Dovete stringervi."

Entrai nel Block. Dalla porta esso mi sembrò, con tutte quelle scritte sulle travature, uno strano bazar. Poi ebbi l'impressione di entrare nella stiva di una galera, quindi mi parve di scendere in una catacomba, ma la sera, quando la baracca fu piena di oltre ottocento persone che vociavano, gridavano, si spingevano, l'impressione che ne ricevetti fu quella di una bolgia infernale.

Il capo mi assegnò un posto tra i delinquenti comuni, tutti polacchi. Erano circa trecento. Di faccia c'erano duecentocinquanta prigionieri russi, soldati e ufficiali, e tra di essi un colonnello. A differenza di noi essi potevano portare la barba e i baffi. Il colonnello aveva dei lunghi baffi rossi spioventi. Erano tutti di aspetto buono e simpatico. Da circa tre anni avevano girato tutti i campi di concentramento della Germania finché s'erano fermati ad Auschwitz. Poi c'erano gli ebrei, di quasi tutte le nazionalità, oltre trecento, e un piccolo gruppo di calmucchi. Di italiani non c'era ancora nessuno in quella baracca, eccettuati noi sei.

Uscito dal Block dopo l'assegnazione del posto, mi mescolai a quella folla che mi guardava incuriosita. Si doveva essere sparsa la voce del nostro arrivo, perché alcuni italiani, che lavoravano là vicino alla costruzione della strada davanti alle baracche, mi si avvicinarono. Erano ebrei di Roma, trascinati nel campo due o tre mesi prima. Visi pallidi, emaciati, con grandi macchie sulle guance e sul mento. Mi dissero che la vita del campo si poteva compendiare in tre parole: fame, botte, lavoro. Dopo di questo, e accennarono ai camini lontani che gettavano fuoco e fiamme, c'era la morte per asfissia e quindi la distruzione nei forni crematori.

La vista di uno dei capi li fece scappare. Vidi che si allontanavano di corsa, mentre un uomo li inseguiva urlando in una lingua che non comprendevo, forse polacco o russo. Essi sparirono nella nebbia e nella polvere della strada in costruzione.

Subito dopo, sul nostro spiazzo vennero condotti dieci degli ottanta ebrei che in altri due carrozzoni avevano fatto parte del nostro trasporto. Avevano passata la notte in un altro salone e avevano avuto un trattamento peggiore del nostro. Il medico del campo, il Lagerarzt, aveva eseguito subito la selezione: di ottanta ne erano rimasti dieci. Si aveva, per ora, solo il sospetto che li avessero fatti morire: un sospetto che ben presto doveva diventare certezza.

Si seppe infatti che le SS mandavano immediatamente nella camera a gas, e poi al crematorio, tutti gli ebrei di ambo i sessi che avessero superato i cinquant'anni, tutti i bambini, maschi e femmine, fino ai quattordici anni e chiunque presentasse difetti fisici o non paresse in grado di lavorare nelle miniere di carbone e nelle cave di pietra.

Perché gli altri dimenticano di Bruno PiazzaWhere stories live. Discover now