Tu

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Era una domenica mattina di fine ottobre e io non ti stavo pensando.

No, direi proprio di no.

Avevo i gomiti piantati sulla scrivania, le gambe che disegnavano scie di aria stantia attorno alla sedia e un libro di grammatica aperto a pagina trentatré. A quello sì che ci pensavo, avevo così tanto da studiare che non mi sarebbero bastate dieci domeniche mattina per terminare tutto.

Ma a te, io, non ci pensavo proprio.

In quel momento eri come l'anello che mi avevi regalato un anno prima. Io lo sapevo che c'eri, proprio come sapevo che il tuo anello d'oro mi fasciava l'anulare della mano destra. Ma non ti stavo pensando, il mio cervello ti aveva gettato in mezzo a un mucchio di altri pensieri frequenti e dimessi.

E io al tuo anello non ci stavo pensando e non ne sentivo neppure la consistenza.

E' strano il modo in cui la nostra pelle si abitui al tocco. Potrei tirarmi un pizzicotto, sentire tanto dolore e poco dopo dimenticarmene. In medicina si chiama anestesia.

Ecco, io mi ero auto-anestetizzata da te. Il tuo pizzicotto non mi faceva più male.

Sai cosa faceva davvero male? Tutte quelle pagine ancora da studiare.

E chi l'avrebbe mai detto che proprio io, la prima della classe sin dalle elementari, colei che si porta in borsa un libro ancor prima della bottiglietta d'acqua, avrei trovato tanto noioso un capitolo di grammatica?

Tu mi avresti risposto che quelle cose che non ci piacciono, servono a farci apprezzare meglio quelle per cui abbiamo una naturale affinità.

Ma io a te non ci stavo pensando, sia chiaro.

Ogni tanto mi attraversavi la mente, questo sì, ma come una rondine a fine primavera. Passavi da me, mi ammaliavi e poi te ne andavi.

Mi leccai il polpastrello del dito indice e cominciai a sfogliare il libro per contare le pagine che mancavano alla fine del capitolo. Erano quindici, se fingevo di non vedere la sedicesima pagina con un solo paragrafetto.

Ma quella mezza pagina in più, pochi istanti dopo, sarebbe stata gettata tra i pensieri non pensati della mia testa. Insieme all'anello, al pizzicotto che mi ero tirata davvero e ad altre mille cose, delle quali, però, tu già non facevi più parte. Perché pochi istanti dopo, quando il libro di grammatica non avrebbe più avuto alcuna importanza e il paragrafetto a pagina sedici non sarebbe più stato studiato, tu ti saresti schiantato nel mio cervello.

Alcuni scrittori dicono che in una storia ci siano due prologhi: quello che sceglie chi scrive e quello che sceglie il lettore.

Il primo si trova in prima pagina, dopo il frontespizio e quel rigo e mezzo di dedica forzata.

Il secondo prologo, invece, lo si incontra quando si sorride per la prima volta durante la lettura del libro. Di solito si legge un paragrafo, lo si rilegge, ci si ferma un attimo e infine si realizza che quelle parole sembrano parlare di noi. E così si sorride. Ecco, quello è il secondo prologo, perché da quell'istante la storia diventa un susseguirsi di eventi ai quali dare altre pause, altre riletture e altri sorrisi.

Il prologo di questa storia avrebbe dovuto narrare di una me alle prese con un libro di grammatica.

Ma non prendiamoci in giro, io a te ci stavo pensando eccome. E se solo avessi potuto leggere queste frasi, sono sicura che il tuo primo sorriso sarebbe sbocciato adesso, alla conferma del fatto che avevi sempre avuto ragione tu. Non ho mai smesso di pensarti.

Quindi, quando ero arrivata al paragrafo a pagina sedici e qualcuno aveva cominciato a bussare con frenesia alla porta di casa, non ero stata colta impreparata. Abbracciavi ogni mio emisfero cerebrale, come potevo sussultare al suono cacofonico di una mano che bussava alla porta e che aspettavo ormai da tanto tempo?

Ma che tu, religioso com'eri diventato, ti fossi permesso di morire di domenica mattina, questo non riuscivo ad accettarlo.

Avevi deciso di smettere di respirare a fine ottobre, in pieno autunno, la mia stagione preferita. E sapevi anche questo.

Come avevi osato privarmi di quella domenica mattina e di tutte quelle che sarebbero seguite? Come avevi osato macchiare di morte i paesaggi autunnali che ci hanno sempre fatti da sfondo per le nostre passeggiate?

Ora lo sentivo eccome il peso del tuo anello, mi solleticava la pelle alla base dell'anulare e avrei voluto strapparlo via, gettarlo lontano e sperare che dal punto in cui sarebbe caduto potesse fiorire un altro te.

Ma ero troppo giovane per comprendere che dalla rabbia non può che nascere desolazione.

E tu, tu non eri stato affatto desolazione.

Che un prologo cominci con la morte non è raro, ma che cominci laddove finisce una storia è proprio bizzarro.

E io, dopo che tu sei morto, ho vissuto soltanto perché avevo già imparato a farlo.

E se dovessi raccontare la mia storia senza di te, questa finirebbe dopo il punto.

Per questo ti racconterò una storia che conosci fin troppo bene, la nostra.

E' un po' vecchia, sai.

Fatta di lettere, fisarmoniche e gonne lunghe.

Te ne sei andato quando la magia ci sosteneva tutti e non riuscivamo a rendercene conto. E che fortuna che tu sia morto prima di tutto questo.

Un idealista come te non avrebbe mai compreso il motivo che spinge due ragazzini a mandarsi messaggini piuttosto che baci sulle guance. Tu, tu che percorrevi undici chilometri con una bicicletta soltanto per vedermi appollaiata sulla ringhiera del mio balcone, non avresti mai capito questo mondo.

Per questo ti parlerò del passato.

Perché il presente, al tuo confronto, sembra più morto di te.

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⏰ Cập nhật Lần cuối: Feb 04, 2020 ⏰

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