Capitolo 2

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Il mio piano di entrare senza dare nell'occhio e rinchiudermi in camera non funzionò. Nell'istante in cui misi piede nella nostra casa, se così si poteva definire, a Canons Close sentii i passi di mia madre in salone. Mi raggiunse prima ancora che potessi chiudermi la porta alle spalle.

Si tenne a qualche passo di distanza, guardandomi con un misto di apprensione e rabbia negli occhi.

<<Dove sei stato?>> chiese provando a non far trapelare il nervosismo dalla sua voce. Aveva assistito alla litigata con mio padre di quella mattina e sapevo che non voleva mettere più legna sul fuoco. <<E' tardi>>

La superai ed entrai nella sala spaziosa che chiamavamo salone. Avevo sempre trovato quella casa troppo grande per quattro persone. Quando c'era ancora Andrew con noi era più fattibile: invitava spesso amici e in qualche modo lo spazio si occupava. Ma da quando si era trasferito in America ed eravamo rimasti solo noi i due piani di quella villa, le due piscine, la sala pranzo, i due saloni, i vari terrazzi e le sei stanze da letto erano diventati fastidiosamente e inevitabilmente inutili. Sembravano fatti apposta per evidenziare la solitudine che circondava la nostra famiglia. Non che non avessimo conoscenze perché di quelle ne avevamo fin troppe, bastava partecipare ad una sola delle serate sociali che i miei ormai organizzavano settimanalmente per rendersene conto, ma erano tutte "amicizie" volte a dimostrare a se stessi e agli altri chi avesse più successo o più popolarità.

Non disprezzavo i soldi e tutte le opportunità che essi mi avevano portato, però ogni tanto mi sarebbe piaciuto che ci si concentrasse anche su qualcosa di diverso. Mi sarebbe piaciuto poter invitare un mio amico a casa senza che sembrasse lo facessi per vantarmi.

Era proprio per potermi allontanare da quell'ambiente in cui ero cresciuto che avevo scelto un liceo dall'altra parte di Londra rispetto ad Highgate: mi facevo mezz'ora di macchina ogni mattina per arrivare ad Hackney.

<<Stavo da Jake con gli altri della squadra>> dissi sentendomi in colpa per averla ignorata e voltandomi a guardarla. Lei non c'entrava niente con il mio nervosismo. <<Mi dispiace di averti fatta preoccupare. Mi mangio qualcosa al volo e poi vado a letto che sono esausto>>

Annuì e si strinse la vestaglia di seta addosso. <<Alice ha lasciato cucinato del pollo con patate e piselli prima di andarsene. Noi abbiamo già mangiato, ma ce n'è ancora un po'>>

Alice era una delle tante persone che i miei avevano assunto per aiutare con le pulizie e la gestione della casa. Per il momento non era ancora stata licenziata, ma sapevo che sarebbe finita come con le precedenti: prima o poi avrebbe rotto qualcosa o si sarebbe "adagiata troppo" e mio padre l'avrebbe cacciata. Aveva una quarantina d'anni e non parlava molto, ma era capitato che ci scambiassi qualche parola. Di solito se io ero a casa lei se n'era già andata o il contrario. Se invece eravamo entrambi in casa tendenzialmente ci trovavamo in stanze diverse.

Salii le scale e andai in camera mia a poggiare giacca e zaino, poi tornai di sotto e mi riscaldai il cibo nel microonde. Non mi sembrava il caso di mangiare seduto da solo a un tavolo per venti persone, perciò rimasi in cucina.

<<Ciao>> salutai mio padre quando lo incontrai sulle scale, una volta finito di mangiare.

<<E' tardi>> rispose semplicemente, senza nemmeno fermarsi.

Strinsi i denti e mi costrinsi ad entrare in camera mia senza ribattere: non avevo la voglia né la forza di rimettermi a discutere con lui.

La lettera dell'università di Cambridge era ancora aperta sul mio letto, dove mio padre l'aveva lasciata quella mattina per farmi capire che l'aveva trovata.

Non mi aspettavo di trovare teDove le storie prendono vita. Scoprilo ora