Secondo inverno

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Bath, 30 novembre 2011.

«Laura, andiamo», gridò mio padre con voce profonda «è il gran giorno, sbrigati».

Scossi la testa, sbuffando e trangugiando l'ultima parte di brioche. Erano le otto della mattina, il buio serpeggiava ancora tre le pareti di casa e tutta la famiglia pareva già in fermento. Restavo io, avvolta nella mia adorata vestaglia di peluche, i capelli arruffati e il sapore di caffè ad insinuarsi lentamente tra le vene. Di lì a poche ore mio fratello avrebbe finalmente sposato la donna della sua vita, eppure qualcosa m'impediva di godermi a pieno quella sensazione. Certo, nel soffio di un anno avevo apportato diversi cambiamenti alla mia precedente e monotona esistenza: avevo trovato lavoro in un piccolo ma soddisfacente giornale di Londra, condividevo l'appartamento di Gemma a Soho ed avevo nettamente allargato la mia cerchia sociale. Nonostante ciò, il suo pensiero non mancava di accompagnarmi in qualsiasi passo o successo raggiunto. Per qualche mese eravamo riusciti a mantenere i contatti, sentendoci di tanto in tanto tramite brevi ma intense telefonate. Alla volta di Maggio, tuttavia, non ebbi più sue notizie, fatta eccezione per i saltuari aggiornamenti di Gemma che mi distoglievano dalla tragica idea che fosse morto in qualche locale di Los Angeles.

A passi stanchi avanzai lungo le scale di mogano che conducevano al piano di sopra, abbandonandomi poi al caldo tepore della doccia. Spesso avevo creduto di amarlo. Folle, lo so, ma non sapevo come altro concepire quel sentimento o dargli un nome. In fondo, l'amore non è soltanto quello puramente fisico. Il mio amore per lui era come per qualcosa di dolce, di puro. Come per un tramonto sul mare o per la neve il giorno di Natale. Era l'amore per qualcosa di nuovo, di bello. Qualcosa che era così vicino da poterlo sfiorare con le dita.
A destarmi da quel coma di pensieri ci pensò il campanello e l'entrata trionfante di Gemma in un grazioso e roteante vestito color pesca.

«Sei ancora così?», strillò, accendendo il rosa delle guance.

Scossi la testa, rientrando nella mia adorata e calda vestaglia.

«Beh, ho fatto la doccia», replicai, gettandomi a peso morto sulla poltroncina della grande specchiera bianca «e sono pronta per questo miracolo estetico».

Di riflesso la osservai sbuffare, posando la pesante valigetta contenente trucchi ed altre centinaia di strumenti a me estranei.

«Non servirebbe un miracolo se soltanto ti decidessi a pensare un po' di più a te stessa», sentenziò «i matrimoni sono occasioni d'oro per incontrare qualche ragazzo sexy».

«Che ovviamente non guarderà me», replicai, già sofferente per gli armeggiamenti con la mia povera chioma.

«Certo, perché non ti valorizzi», continuò, accendendo il phon «i ragazzi sono attratti da chi si mostra sicuro di sé».

«Gemma, è inutile cercare la modella di Victoria Secret che è in me», ironizzai. 

«L'hai fatta morire con il tuo scarso senso estetico», sbraitò, le lentiggini del viso in forte contrasto.

L'adoravo, ne ero certa. Aveva la stessa sfrontatezza e lo stesso senso dell'umorismo di Harry, ma con un carico di dolcezza mai riscontrato in nessuno prima d'ora. In lei avevo trovato più di un'amica e per quanto mi ferisse ammetterlo, anche questo era merito di un'unica persona.

***

Avevo pianto, eccome se avevo pianto.
Laura sei troppo sensibile, dicevano tutti. Niente di più vero, ma in fondo, come potevo trattenermi? Scrutare gli occhi di mio fratello, quelle piccole e luminose pagliuzze tra le iridi scure, mi aveva resa instabile. Lì al suo fianco, stretta nel mio lungo abito rosa cipria, ero stata testimone di qualcosa di magico che per qualche strambo motivo non sentivo mio. Sì, mi sentivo lontana da quel sentimento, come se non ne conoscessi neppure il significato. Come se il cuore si fosse fermato al punto esatto in cui Harry aveva lasciato la città. Come se i battiti se ne fossero andati con lui. Mi sentivo estranea a quella gioia.
Eppure piangevo: piangevo perché lo desideravo.
Avrei dato tutto pur di percepire nuovamente quel brivido, quella connessione, quel modo di guardarmi dentro. Invece tutto era partito con lui, si era insinuato nella sua valigia e non sembrava aver intenzione di tornare. E io rimanevo lì, sulla sedia di lino bianco, il mio vestito di seta e cinque pasticcini con la crema chantilly.
Forse avevo esagerato, ma era il momento dei balli romantici: non avrei potuto sopportarli se non con qualcosa di fortemente calorico.

Dieci inverni [h.s.]Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora