2.

31 0 0
                                    


Ogni giorno che passa perdo sempre più la cognizione del tempo. Ed è davvero tempo quello che mi scorre accanto? Fatico a contare i giorni, i decreti si sovrappongono l'uno sull'altro, sono sempre più tirannici, sempre più disperati e il virus non sembra proprio impietosirsi.

La socialità, che all'inizio aveva trovato pane fresco, sperimentazione ed eccitamento, seppur nella frustrazione, ha perso il suo misero entusiasmo: si limita ora a qualche raro saluto al telefono, qualche foto. La noia che in principio sembrava avvolgere ogni cosa, si è rivelato tedio. La più grande oppressione sta nel non potersi avvicinare, toccare, accarezzare, perfino picchiare, perché anche in una repentina sberla, c'è chi penserebbe possa nascondersi la malattia.

Se domani il giorno sarà uguale, ugualmente libero, a che scopo riordinare oggi l'armadio, pulire i pavimenti, togliersi il pigiama, togliersi dal letto. A che scopo realizzare progetti se non per il futuro remoto, per quando tutti saremo liberi. Non si tratta neppure di progetti allora, si tratta solo di sogni, di post-it, appunti nella notte, che al risveglio avremo già dimenticato, svalutato, aggirato.

La morte colpì i più anziani in principio. Ora come birilli, come lampadine di natale, in fila, crolla una crollano tutte, si ammalano i medici fatalmente. Uno dopo l'altro negli ospedali, a un tratto colmi e strabordanti, cadono i soldati della prima linea contro questa guerra. Gli ospedali si svuotano. Sono migliaia e saranno milioni i cadaveri, che non si possono seppellire. Portano per un po' putrescenti i loro odori gli uni dagli altri, finalmente vicini nelle fosse comuni, finalmente si toccano nelle stanze dove li depositano in attesa di essere cremati, in più per volta.

Nella mia famiglia il clima è stato pessimo fin dall'esordio, nonostante nostre fossero condizioni a dir poco ideali: con due lavoratori d'ufficio e due studenti, pressoché adulti. Non potevamo soffrire l'esasperazione gli uni degli altri e anziché supportarci, ci fu subito difficile sopportarci. Dopo poco la convivenza si limitò ai pasti e qualche sporadica visita durante la giornata. Andò effettivamente meglio. Il peggio accadde quando le telefonate della zia del papà, che chiamava di tanto in tanto per farsi compagni, iniziarono prima a farsi rare, poi a cessare del tutto. Ce ne accorgemmo solo dopo una settimana. La zia era morta in casa sua, senza accorgersi di cosa: ovviamente della malattia. Era vecchia e non più molto presente, ma era buona. Gli anni l'avevano resa più tenera, anche nel corpo: con tutti i muscoli rinsecchiti. Era vecchia, ma non in fin di vita, e invece il virus in un respiro, un respiro mancato, se l'era portata all'altro mondo. Fu terribile non saperlo, il senso di colpa iniziò a lacerarmi le viscere. Più per il mio comportamento di indifferenza che per la sua morte in sé. Indifferenti eravamo diventati tutti. Il funerale non si celebrò. Piangemmo noi quattro la nostra propria sofferenza, ci abbracciammo, mio padre no. La fobia gli impediva di starci vicino, di accettare di averci attorno per dargli conforto. Con la barba incolta come le sue attenzioni, sempre orientate al lavoro - anch'esso fuligginoso come il futuro - i suoi pensieri sempre più assenti e simili a quelli di un bambino spaesato o di un vecchio demente, che non ricorda dove sono i sacchetti nella sua casa, o le posate. L'ossessione, i guanti, i prodotti antisettici, avevano reso asettici pure noi e a fatica ci accorgevamo delle poche persone che avevamo ancora accanto, quelle che potevamo stringere. Riflettei sulla perdita come se il mio pensiero fosse avvolto nella foschia, non riuscivo davvero a trovare un'alternativa a quell'ignorarsi. Non era poi colpa nostra, mi dissi. Era così che stavano andando tutte le relazioni e non potevano che andare così. Poi, forse, sarebbero andate meglio.

Giorno XX

Abbiamo saputo che si è ammalato il nonno, il papà del papà. Aveva già un tumore, ma la metastasi procedeva con flemma e tranquillità, dandogli il tempo per le cure, fino a quando gli ospedali sono stati agibili, dando il tempo a noi di prenderci cura di lui, fino a quando che ci è stato permesso. La nonna vive con lui e si ammalerà. Hanno, abbiamo già messo questo in conto. Non c'è spazio per le cure per nessuno sopra i 60 anni. Loro ne hanno quasi 80.

Il governo ha deciso di gestire così la scarsità dei medici, di luoghi di cura, in proporzione alla mole di ammalati di malattia. La sopravvivenza non è garantita. Le cure sono somministrate, se possibile a partire da una certa età, che per ora è fissata a 60, e così a scendere.

Io non vedo spiragli d'uscita. Non vedremo i nonni morire soffocati, chiusi nella terapia, chiusa nell'ospedale, lontana, noi chiusi in casa. Non abbiamo visto nessuno morire così. Sembra quasi che questo virus sia completamente alieno, invisibile non solo perché microscopico, ma anche nei risultati, quasi intangibili, a eccezione di quello di essere rinchiusi. Anche la morte ha perso la sua maestosa potenza, è quasi sciatta, fredda. Morivano in tanti, ma erano lontani. Ora che i morti sono vicini, nella mia famiglia, è diverso. Ma è un po' come se mi fossi abituata alla strage. I numeri esorbitanti non mi spaventavano più da tempo. Ma questi attorno a me sono i miei ricordi: i miei nonni. Non avrò diritto a salutarli, né loro ad abbracciarmi, a dirmi "Oh, dobbiamo prendere appunti quanto ci parla la nostra nipotina", come facevano sempre. L'idea di lasciarli lì, ad appassire come gerani su un balcone troppo assolato, mi toglie le forze. Il nonno mi sembra fragile, come un maialino che sente i rumori del macello. La nonna invece è forte, com'è sempre stata. Ci ha chiesto di chiamarli il meno possibile: per annebbiare i ricordi. Come in preda all'ebbrezza ho pianto la notte e il giorno, dopo che ce l'hanno detto. Oggi non piango più. Non so se ho paura. Spero non ne abbiano loro, spero tanto. Li sento lontani. Se faccio affiorare i ricordi, la mia memoria li respinge come sogni.

La nonna mi lancia dal balcone mille pezzetti di carta di tutti i colori: bandiere. Siamo avvolti dagli alberi e dal verde del grande giardino. Le bandiere si posano sui rami e a terra, come farfalle cerco di acchiapparle. Entro nella casa. Il nonno sta fumando e io lo sgrido. Faccio il broncio allora per farsi perdonare lui mi dice Giochiamo a ping pong? Cominciamo una sfida, un'enorme sfida. Non abbiamo un tavolo: giochiamo a terra ma siamo bravissimi! Battiamo tutti i record!

...

La pioggia batte sulla pensilina della fermata dell'autobus. Sono molto triste. I miei genitori mi hanno spedito in montagna coi nonni. Io non ci volevo stare qui! Stavo bene con i miei amici al paese. Ma mi hanno beccata con delle lattine di birra rubate al supermercato, Ci hai molto delusi, hanno detto. Il nonno mi ascolta tutt'orecchi. Gli racconto degli odori che la notte e la pioggia evocano in me. Sono innamorata, ma non posso dirglielo. È anche per questo che non avrei voluto andarmene via, là avevo tutta la mia compagnia! Ho pattinato tutto il giorno e ho le gambe stanche. Scoppio in lacrime. È la frustrazione e la fatica. Il nonno mi ascolta col corpo: mi abbraccia, come fosse un ragazzo e non un grande!

...

Discutiamo a tavola. Il nonno e la nonna sono furiosi. Io pure. Ce l'ho con la loro idea sui gay. Proprio non capiscono questi due! Non è che perché il loro mondo era diverso, allora fosse giusto. Il nonno argomenta con l'esempio di una checca che ha tentato di palparlo in gioventù. Ma insomma! Se esistono gli imbecilli con gli occhi verdi non è tutti gli occhi verdi sono di imbecilli!

Mi scorre una lacrima sul viso. Mi nascondo dentro il cuscino e mi abbandono al sonno perché non voglio piangere più. Al mattino ho gli occhi gonfi di incubi, il cuscino è completamente bagnato.

Quanto è stretta la scatolaWhere stories live. Discover now