Parte 1 senza titolo

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New York, 17 ottobre 1988

Le strade innevate mi tranquillizzano. Il freddo che sale dalla strada, penetrando prima la pelle per poi espandersi e congelare con prepotenza fino alle viscere il mio esile corpo, mi calma. Sto passeggiando per una via di Manhattan, sono le venti di una qualsiasi gelida sera. Ripenso a pochi giorni fa, a quanto io sia stato un codardo a scegliere di non andare a lavoro quella mattina. Mi sento in colpa, mi dico che non v'era alcuna motivazione per la quale il mio comportamento poteva essere in qualche modo giustificabile. Mi tormento. I pensieri aumentano, sono diventati un turbinio nella mia testa, non riesco più a fermarli. Inizio a tremare; per il freddo? Non so dirlo. Mi accendo una sigaretta e mi siedo su una panchina. Cerco di tranquillizzarmi, di vagare con la mente. Poso attenzione su una bancarella ambulante che vende hot dog. Mi concentro sui dettagli: il venditore sembra messicano, carnagione olivastra, rugosa. Sorriso che insospettisce; sguardo vispo, attento, furbo; mani veloci e precise. Inizio a fantasticare sulla sua vita, mi immagino la sua infanzia, lo immagino in circostanze più o meno ambigue e finalmente la mia mente si libera.
Torno a casa e mi concentro sul lavoro sorseggiando un bicchiere di whisky per riscaldare la fredda atmosfera.

New York, 25 ottobre 1988

Non riesco più a controllare il mio corpo e la mia mente. Sono piombato in uno stato di completa anarchia, dove le mie emozioni ed i miei pensieri prendono il sopravvento sopra ogni giorno del giorno e della notte, sopraffacendo il mio autocontrollo e riducendolo in poltiglia. Mi ritrovo ad avere crisi incontrollabili dove si scatena un forte senso di paura che percorre ogni millimetro del mio corpo, provocandomi tremori, tachicardia, senso di svenimento e impossibilità nel riprendere fiato. Sono spaventato. Mi è capitato circa tre volte durante l'orario di lavoro e una volta in metropolitana. Odio sentirmi in quel modo, come se non fossi più protagonista della mia vita, come se non fossi più io a scegliere quali azioni compiere tramite il mio corpo, come se di colpo un uomo vestito di nero facesse irruzione in me, mi legasse ad una sedia obbligandomi ad assistere passivamente al suo spettacolo ed iniziasse a manovrare il mio corpo quadruplicando l'intensità delle emozioni e dei sensi, facendomi compiere azioni inadeguate alle circostanze che sto vivendo ed io, totalmente inerme, subisco. Ho intenzione di annotare ogni episodio, scrivendo dove mi trovo, cosa provo, cosa penso, cercando una causa scatenante comune. Un fiammifero raschia contro il lato ruvido della confezione e prende fuoco, si avvicina alla sigaretta ed è arde, provocando la combustione. Faccio un tiro e mi concentro sugli attacchi passati. Sono in salotto, nel mio appartamento a Manhattan. I pochi mobili sono stati appoggiati e mai utilizzati, messi lì solo per riempire lo spazio. Non tengo nessuna foto appesa o in vista, solo qualche quadro di artisti famosi, dei quali ricordo a malapena i nomi, piazzati per dare un po 'di calore all'atmosfera. La cenere della sigaretta scivola per un movimento impercettibile della mia mano e si posa dolcemente sul foglio di carta bianco, non ancora impregnato dall'inchiostro della mia penna. Sventolo il foglio all'aria in modo che cenere cada in terra, prendo la penna e inizio ad elencare ogni episodio, allegando dettagliatamente tutti i particolari elencati in precedenza. Finito di scrivere, riesamino scrupolosamente il mio schema da cima a fondo, cercando ogni minimo collegamento che può far scattare nel mio cervello un campanello di allarme. Ovviamente, perché lo schema possa avere un certo, effettivo, tipo di valenza, non posso basare il mio studio amatoriale su un così ristretto campo, ma, a malincuore, dovrò pazientemente aspettare altri episodi, così da avere più elementi da confrontare. Con le mani legate in quanto alle mosse successive, abbandono la mente sulla scrivania del salotto per la notte e mi dirigo in camera da letto.

New York, 1 novembre 1988

Sono passati alcuni giorni da quando ho avuto l'idea di tenere un diario per le mie crisi e ho aspettato un po' di tempo prima di decidermi a considerare realmente "generale" l'analisi che ho iniziato a fare, perché volevo avere un quadro più completo della situazione. Purtroppo, più il tempo passa, più si allontana la scoperta di un collegamento razionale tra di esse. Il desiderio di avere chiarezza su questa situazione spinge la mia mente oltre ogni limite di pensiero, ma evidentemente i mezzi che ho a disposizione non sono sufficienti. Cosa posso fare? Dovrò forse continuare a sopportare tutto ciò? Continuare a sopportare gli sguardi increduli e le espressioni di pietà delle persone che per puro caso mi capitano vicine in metro mentre sto avendo un attacco di panico o mentre mi sto sentendo male? O i miei colleghi e il mio capo che, quasi "per caso" e con sguardo pieno di giudizio, si ritrovano a riempirmi di domande, chiedendomi spiegazioni, dettagli, sottigliezze impercettibili che colgono con prepotenza, a causa di un'impunita e malsana curiosità. Sento di non avere il controllo su niente di ciò che mi circonda, che tutto mi riguarda, ma che niente mi appartiene davvero. Il solo pensiero di dover trovare una soluzione a questa situazione mi fa stare male, e dover evitare costantemente questo pensiero mi fa realizzare il peso del fardello, o meglio, lo aumenta sproporzionatamente.

New York, 7 novembre 1988

La situazione ormai non è più in mio controllo da settimane ed ogni giorno mi sento più in gabbia. La mia vita non è più la stessa e non lo sarà. Vorrei trovare il coraggio di chiedere aiuto, di aprirmi con qualcuno, ma con chi? Anche volendo non avrei nessuno con cui potermi confidare. L'altro giorno, passeggiando per le vie di questa affollata città, vidi su una bacheca di annunci un foglio, dove v'erano scritti numero di telefono, nome e indirizzo di un certo psicologo. Strappai il pezzo di carta quasi senza accorgermene e proseguii per la mia strada. Ora mi ritrovo qui, in questa fredda stanza, con un biglietto per la salvezza in una tasca del cappotto e mille motivazioni per non chiamare nella testa. Penso e ripenso, rimugino sulle ragioni a favore e quelle contro, sono agitato, ho il batticuore. Mi guardo intorno. Cosa vedo? Una stanza piccola, poco illuminata e quasi vuota. Ci sono montagne di scartoffie poggiate su un tavolo ed è tutto in disordine, come se fosse entrato un ladro ed avesse messo a soqquadro l'intero ambiente. Le rotelle nella mia testa continuano a girare ed a girare in continuazione, scenari di tutti tipi si presentano davanti ai miei occhi e mi mandano in confusione, ma ad un tratto smetto di pensare e torno a guardarmi intorno. Una via d'uscita! Dal mio appartamento disordinato o dalla mia mente ingarbugliata, ecco cosa stavo affannosamente cercando. Alzo la cornetta e compongo il numero.

New York, 3 Dicembre 1988

I miei occhi attenti sono posati sul dottor White, intento a descrivermi con precisione il reale (e inconscio) scopo delle mie ansie e degli attacchi di panico che in questo periodo hanno tappezzato le mie giornate. Non potevo crederci che la mente fosse una macchina talmente complicata e dalle mille sfaccettature. È incredibile davvero, mi spaventa. Probabilmente, ed è un'ipotesi, a causa di meccanismi innescati sin dall'infanzia, la mia mente sarebbe abituata a lavorare in funzione di chi mi circonda. Mi spiego meglio. Chiunque, da quando ero un piccolo esserino, si è sempre aspettato di tutto da me, tranne che io fossi quel bambino gioioso, curioso ed avventuroso che realmente ero, che passava le giornate ad esplorare la natura colorata e profumata, variegata da infinite specie di animali e piante, dei boschi in aperta campagna. Ho sempre dovuto rispettare dei limiti, delle barriere, oltre le quali non potevo andare. Ho imparato a comportarmi in un determinato modo in presenza degli altri, a parlare in un determinato modo, persino a pensare diversamente. Non so cosa abbia innescato dopo tanti anni questo meccanismo di difesa che mette in atto la mia mente, ma sta di fatto che quando il mio cervello riconosce una possibile situazione di pericolo, dove il mio "comportarmi in modo costruito" potrebbe essere conforme al luogo o all'ambiente in cui mi trovo, scatta un attacco di panico. Come se io, inconsciamente, volessi impedirmi di essere ciò che ho imparato ad essere, che è una versione parallela di me, totalmente opposta nei pensieri e nei modi di fare. L'ansia, invece, è legata al fatto che io, inconsciamente, sono consapevole di tutto ciò che la mia mente sta mettendo in atto per proteggermi da me stesso, ma so anche che la mia intera esistenza, i miei rapporti di lavoro e tutto ciò che ne concerne, è basato su questo mio "alterego", che corrisponde al perfetto collega, dipendente e cittadino. La seduta è terminata, saluto cordialmente il dottor White e scendo in strada. Decido di concedermi una passeggiata e mi incammino verso il parco. Sono le sedici di un pomeriggio calmo e assolato, le temperature sono aumentate e con il sole la visione del mondo risulta sempre più viva e piena di colori. Un ragazzino sfreccia su una bici verde e fa a gara con dei compagni, due bambine canticchiano delle graziose melodie e una coppia ride, scambiandosi dolci parole d'amore su una panchina baciata dai raggi del sole. Come riescono le persone a concedersi la felicità? Forse non costruendo nulla, lasciando che le cose si aggiustino da sole, imponendosi agli altri forse, magari solo aspettando. Credo che la parola chiave sia leggerezza. Non nel senso di superficialità, che è la piaga peggiore che possa capitare ad un disgraziato, ma nel senso di sperimentare, di inventare, essere malleabili, risultare vincenti grazie alla sconfitta, avere quel senso di adattamento tale da accettare il cambiamento e, nonostante la paura, vedere come va. Mentre continuo per la mia via, mi lascio travolgere dal tepore di un raggio che si posa sul mio volto e, assaporando ogni istante, chiudo gli occhi.

Fuori controlloWhere stories live. Discover now