Tomura Shigaraki

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La porta si chiuse, con un sonoro clanck.

Girò la chiave nella serratura e fece scattare il paletto.

La stanza era immersa nell'oscurità e l'unico rumore era quello del suo respiro.

Non si preoccupò di accendere la luce e andò dritto verso la propria camera.

Aprì la porta lentamente, lasciando andare un piccolo sospiro.

La sua camera era quella di sempre, il letto sfatto, le pareti rovinate, una scrivania cigolante.

Vi era uno specchio, andato in frantumi, ma non si era curato di mettere via i vetri.

La luce pallida della luna attraversava la tenda, facendo stendere uno dei suoi bianchi raggi sul pavimento polveroso.

Si avvicinò al letto e si accasciò tra le coperte.

Se ne stava così, rannicchiato, tra le lenzuola fredde.

La tenda venne mossa un po' dal vento, evidentemente aveva lasciato la finestra aperta.

Si portò indietro i capelli, perché non gli ricadessero sugli occhi.

Teneva lo sguardo fisso su un angolo della stanza, senza muoversi.

Anche il cuore sembrava essersi fermato.

«A volte mi chiedo perché io faccia tutto questo» mormorò, o forse lo pensò e basta.

Si sdraiò a pancia in su, osservando il soffitto, pieno di macchie. L'intonaco era crepato in diversi punti e a volte capitava che cadesse a terra alzando nuvolette di polvere.

«Come ci sono arrivato» sussurrò, strofinandosi una mano sul collo.

Gli occhi iniziarono a bruciargli terribilmente e se li stropicciò con le nocche.

Il bruciore, però, aumentava sempre di più e iniziò a lacrimare.

La pelle sotto gli occhi iniziava a scorticarsi e le ferite si riaprirono.

Tuttavia non si mosse e lasciò che il sangue si mischiasse alle lacrime.

Allontanò le mani, lasciandole sul materasso.

Chiuse gli occhi e serrò le labbra, trattenendo i singhiozzi.

"Cosa sono diventato..." pensava, e queste parole erano come una martellata sulla nuca.

Facevano terribilmente male e sembravano esserglisi stampate in fronte.

Non riusciva ad allontanare l'idea del mostro che era diventato con il tempo, ma la cosa che lo spaventava ancora più di tutte era che non aveva alcun rimorso.

Piangeva, pronunciando quelle parole, perché non un singolo angolino del suo cervello sembrava provare il benché minimo dispiacere.

Cercava di convincersi di non esser mai voluto arrivare fino a quel punto.

Forse era vero, almeno all'inizio.

O forse la verità è che non aveva mai programmato niente, lasciando che la sua vera natura si manifestasse.

Forse lui era nato per quello, non poteva far nulla per frenarsi.

Frenarsi.

Perché desiderava così tanto smettere se tutto ciò non gli provocava rimorsi né sensazioni di dispiacere o pentimento?

Ed iniziò a ridere.

Era completamente andato.

Rideva mentre piangeva sangue, nella camera buia e lercia, nelle coperte impolverate e non riusciva a smettere.

Rideva come un pazzo, o forse lo era davvero.

Rideva perché tutto ciò che era diventato lo faceva stare schifosamente bene e splendidamente male.

Cercava di frenare la sua indole forse per puro sadismo.

La sua risata riecheggiava tra le pareti spoglie.

Sapeva che nessuno sarebbe stato in grado di fermarlo.

Sapeva quale fosse il suo nome e che persona rappresentasse.

Si sentiva invincibile e potente, forse proprio perché non aveva nulla da perdere.

Non aveva più nulla e quello per lui era avere tutto.

Continuava a distruggere chiunque e qualunque cosa attorno a sé, e solo questo lo faceva sentire vivo.

Perché del resto era ancora vivo, ed era inarrestabile.

L'ombra della folliaWhere stories live. Discover now