Una giornata difficile

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Sono le 17.30, circa.

Le lezione sono finite e l'università velocemente si svuota, chi sfida il freddo per togliersi lo sfizio dell'ultima sigaretta, chi per correre in stazione e tornare a casa più velocemente possibile, chi per concedersi una passeggiata al termine di una lunga settimana.

Qualche nuvola un po' più scura sembra minacciare pioggia, ma una ferita azzurra si apre all'orizzonte lasciando intravedere il tramonto: una tipica serata romana di inizio novembre.

Tre ore di anatomia sono abbastanza per stendere un qualsiasi essere umano, e lei non è un supereroe. Inoltre, la prospettiva di tornare a casa con due coinquiline non particolarmente accomodanti sicuramente non aiuta.

Non aiuta di solito, e non avrebbe aiutato a maggior ragione quel giorno, perché quel giorno era troppo.

Quel giorno era tutto troppo, e venne tutto insieme.

Capita, ogni tanto, che la sua testa sia invasa da un fiume di pensieri, e quando capita spesso prendono loro il comando. Nessun possibile tentativo di insurrezione, è una battaglia persa ancora prima di combattere:  Roma contro Atene.

Quel giorno poi, non si trattava di una semplice sconfitta, ma di un'autentica strage, per questo, sulla strada verso casa, si fermò.

Si concesse giusto un attimo, tempo di appoggiarsi al muro, tempo di rifiatare e mettere in ordine le idee, tempo di riprendere il controllo della situazione.

Temporeggiare, sperando che passi.

Ma fu allora che accadde.

Un fiume in piena, un tornado, un terremoto, un'esplosione nucleare, no, che dico, Hiroshima e Nagasaki insieme, un fulmine, una tempesta, una guerra, una bomba che esplode, un colpo di fucile, una rissa violenta, un muro rotto, un pugno contro la parete, anzi no, un pugno nello stomaco, un calcio sulla milza, uno schiaffo in faccia.

Tutto insieme.

Meraviglioso, il potere dei sentimenti.

Meravigliosa, la vulnerabilità delle persone.

E lei, in quel momento, era più che vulnerabile, era a pezzi, un pugile battuto all'angolo del ring a fine incontro.

Ci erano voluti 10 secondi. 10 secondi da quando aveva deciso di appoggiarsi al muro con la speranza che passasse tutto. E ora era a terra con gli occhi pieni di lacrime e le mani sul volto.

"Non si piange.", sussurrò.

"Io non piango." ripetè, questa volta battendo forte una nocca contro il pavimento.

"Non ora." - ma sapeva anche lei che era difficile fermare il fiume in piena.

"Io. Non. Piango. Mai." Ed effettivamente era vero, o perlomeno, era abbastanza vero. Non piangere in pubblico, non mostrarsi vulnerabili davanti a nessuno era la sua la sua "Golden Rule", per poi finire a doverli affrontare da sola, troppo orgogliosa per chiedere aiuto, o forse semplicemente stanca,  a imprecare contro se stessa e contro il mondo per la situazione in cui lei stessa si era volontariamente cacciata.

Quando capita, di solito aspetta. Respira. Focalizza la situazione, i sentimenti e le emozioni.

Aspetta che l'onda si ritiri, che la terra torni asciutta.

Ma quel giorno era diverso, l'aveva colta alla sprovvista, e la aveva letteralmente stesa.

Mani sul volto, dalla bocca non usciva nulla.

Avrebbe voluto urlare, avrebbe voluto spaccare tutto, ma fu quel "tutto", che oramai era diventato troppo, a spaccare lei.

Lì.

A terra.

Sola.

Semplicemente aspettava.

Shattered pieces of me // Giuseppe ConteWhere stories live. Discover now