Capitolo 2.

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YURI

VICTOR NIKIFOROV

Sbattei le palpebre un paio di volte ma quel nome non accennò a sparire.

E piano piano sentii montare il panico.

Mille pensieri mi affollarono la mente tutti insieme, primo fra tutti il ricordo di quei quaranta secondi di telegiornale che quella mattina ero riuscito a vedere.

"Victor è...impazzito davvero?"

Ma impazzito non era il termine adatto: sapevo da anni di studi che i pazienti di uno psicologo non sempre risultavano pazzi malati. Nella maggior parte dei casi si trattava di shock subiti in tenera età che la gente si portava dentro per una vita intera per poi scoppiare all'improvviso, mandando nel panico amici e familiari. Ma dopo qualche seduta e una buona chiaccherata, si riusciva ad estirpare il 'danno' dalla loro mente per riportarli alla vita che avevano sempre vissuto.

In altri casi invece, non molti ma esistevano, il paziente risultava completamente pazzo e neanche le nostre abilità erano in grado di riaprire per lui la porta della ragione.

In quei casi, l'unica porta che si apriva davanti al paziente era quella del manicomio.

Dovevo ammettere che molte volte pazienti che potevano essere curati venivano reputati pazzi solo a causa dell'incompetenza dello psicologo curante, che per vera ignoranza o più spesso per soldi, firmava senza nessuna remora il documento d'ammissione al manicomio, passando poi al paziente successivo senza più guardarsi indietro.

Io non volevo essere uno psicologo del genere. E non lo sarei diventato.

Ma questo mi riportava al mio paziente.

Il mio primo paziente.

Il famosissimo pattinatore russo che sembrava essere impazzito di punto in bianco per un motivo a tutti ignoto e che adesso era mio compito portare alla luce.

Senza tralasciare il non trascurabile fatto che per me quell'individuo si avvicinava pericolosamente a ciò che da bambino definivo il mio idolo.

Feci un sospiro e inghiottii a vuoto, cercando di scacciare l'ondata di emozioni contrastanti che si erano impadronite del mio corpo. Il Victor della foto nella cartellina continuava a fissarmi sorridendo. Oltre a quella, al nome e alla professione, i documenti sulla sua salute mentale erano pressochè inesistenti. I vari psicologi russi che lo avevano visitato non erano riusciti a cavare un ragno dal buco, così si erano rivolti alla migliore clinica psichiatrica nelle vicinanze e ovviamente l'attenzione era stata calamitata dalla compagnia in cui lavoravo.

In Giappone, e sospettavo anche in una buona parte di mondo, la Daisuke era la clinica più famosa e ricercata. Se pensavo poi che già a Victor era capitato di soggiornare nel mio paese per molto tempo e più di una volta, mi risultava abbastanza ovvia la loro scelta.

Speravano che qui come in Russia, Victor si sentisse a casa.

Chiusi la cartella e con movimenti frenetici mi tolsi la giacca che ancora indossavo, cercando di allargare un po' il collo della maglietta nera che avevo sotto, per far passare l'aria che mi sentivo mancare.

Quel pomeriggio avrei dovuto accoglierlo nel mio studio, evitando possibilmente di svenire quando fosse entrato dalla porta, e semplicemente mi sarei concentrato nell'istaurare con lui un buon rapporto. Non volevo partire subito alla carica, avrei avuto tempo per scavare nella sua mente. Per ora mi sarei limitato alla conoscenza.

Avrei agito così con qualunque persona mi si fosse parata davanti, a maggior ragione ora che sapevo di chi si trattava.

Victor Nikiforov. Sarei diventato lo psicologo di Victor Nikiforov.

Pazzo di teDove le storie prendono vita. Scoprilo ora