38. Mio padre

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Stilla dopo stilla, le pietre del vialetto cominciano a puntinarsi di pioggia. Alzo la fronte al cielo, ingombro di nuvole grigie e pesanti: ho sempre amato i temporali, quelli improvvisi anche di più. E così, esposta a braccia larghe nel mezzo del giardino della villa di Aslan, aspetto.

Una goccia, poi due, ancora due gocce, un'altra goccia. C'è qualcosa, nel tempo di questa giornata triste mutato d'un colpo come il mio stesso umore, che sembra sia fatta apposta per noi: affidatevi a lei, alla pioggia - credo ci stia dicendo - e lasciate che lavi come può le vostre piccole grandi macchie, lasciatela fare.

Una folata decisa, e il vento si diverte a tracciare una serpentina tra gli amuleti. Li osservo agitarsi nell'aria, appesi ai rami che appena li trattengono a braccetto al loro albero, il guardiano solitario che raggiungo a passo lento. Tintinnano come sono soliti, i ciondoli, forse mi stanno parlando in una lingua che non comprendo: conoscono, almeno loro, il segreto, sinora serbato con tanta dedizione, da Alessandro Aslan? Lo conoscono?

"Finirai con il prenderti un raffreddore". Aslan ha parcheggiato il fuoristrada e mi raggiunge di corsa. "Entriamo", allunga la mano, il diasporo teso a riflettere l'ultima luce prima del tramonto.

Ma io non afferro quella mano, non stavolta. Accarezzo uno degli amuleti e gli faccio segno di avvicinarsi. C'è posto anche per lui sotto le fronde, dove la pioggia è tutta una zampillo; sì, anche per lui, qualunque sia la sua piccola grande macchia.

"Sai che i giapponesi si sono inventati cento modi diversi per dire la parola pioggia?", gli chiedo con il viso solcato da un rivolo che scivola sulla tempia.

"Cento, così tanti?", sorride malinconico, mentre il suo profumo mi avvolge. Lascio che mi abbracci e, in tutta risposta, cerco il suo petto ampio, che mi pare capace di reggere la sua e la mia tristezza insieme.

Abbiamo lasciato l'Agenzia in silenzio, non appena terminato il suo colloquio con Ercole Re. Uno scarabocchio per firma sulla trattativa con la AgePub, e il patron ha congedato tutti, per tornarsene a casa, e credo soffrire in pace. 

"Ha avuto un altro attacco cardiaco, nei giorni scorsi", si è limitato a rivelarmi Aslan, una volta tornato in ufficio. "I medici si sono raccomandati di non fare sforzi e di non lasciare Londra, ma non ha accettato". Una spinta alla poltrona della sua scrivania, e un mugolio nervoso: "Ho bisogno di non pensare, almeno per un po'. Vieni via con me?".

E, così, siamo arrivati qui, a cercare riparo nell'intimità che si è costruito poco distante dalla Metropoli. Un lampo rischiara l'atmosfera lattiginosa, carica di umidità, che invita a cercare riparo. Ma noi restiamo, proprio dove gli ho chiesto. Proprio dove non dovremmo.

Con il pollice, Aslan disegna una mezzaluna per tamponare le gocce che mi cadono sul viso. Anche lui ha spalle e capelli bagnati, anche lui respira a grandi boccate l'odore forte della pioggia che si sprigiona contro il legno, in mezzo alle foglie e tra gli steli dell'erba del prato.

"Non c'è momento, anche il più insignificante, che tu non mi sorprenda, Rossella", scuote il capo, tra il convinto e l'incredulo. "E, ogni volta, mi sveli un pezzo della realtà senza confini che tieni chiusa qui dentro". La sua mano ferma ora si posa all'altezza del mio cuore, preme contro, lo ritempra di un calore familiare.

"Parole così belle, per così poco?", mi schernisco e, veloce, gli sfuggo scivolando fuori dalla sua stretta, tra i rami dell'albero più bassi.

"Sei in cerca di complimenti facili", mi fa notare, divertito. "Non ne avrai altri, torna qui", si scrolla la pioggia tra i capelli.

D'un tratto, sento il bisogno di sapere, di chiedere. E non mi trattengo: "Quale colpa tieni nascosta, Ömer?", pronuncio d'un fiato, seria, cercando i suoi occhi limpidi. "A cosa alludeva Damiano, vuoi dirmelo?".

Crisantemi fritti a colazioneWhere stories live. Discover now