Capitolo 6.
Sistemammo le nostre cose in una camera al di sopra della taverna.
Dopo esserci rifocillate, ci rituffammo nella folla: non che io smaniassi all'idea di un secondo round, così presto peraltro, ma Lobelia sosteneva che dovessimo "saggiare il territorio".
Quindi ovviamente alla fine saggiammo il territorio.
Da quel che riuscimmo a capire il villaggio era costituito interamente da quell'unica via, su cui si affacciavano tutte le attività che potessero essere utili a coloro che erano appena entrati nel Programma. Praticamente lì potevi trovare solo novellini, tizi che avevano capito come fregarli i novellini, e chi cercava qualcuno in particolare. Nessuno era lì ad attendere noi.
Ciò che mi stupì fu l'eterogeneità dei passanti: dopo aver superato la repulsione quel tanto che bastava per guardarmi attorno, mi accorsi che non eravamo tutti così giovani quanto avremmo dovuto.
Se tutti uscivano dal Programma al compimento dei vent'anni, non avrei dovuto incrociare adulti, né anziani, men che meno bambini, ma queste ultime categorie affollavano le strade nella stessa misura dei miei coetanei. E questo non era possibile.
Non che mi desse fastidio – gli adolescenti mi avevano sempre messo addosso quel tipo di paura che ti fa sperare di avere una pattuglia a portata di urlo – ma non aveva senso.
Che li avessero inseriti per rendere il Programma più verosimile? Cioè, tipo manichini parlanti e pensanti?
Mi appuntai mentalmente di osservarli per bene non appena ne avessi avuto la possibilità.
Ma se esistevano persone che non erano vere persone, allora anche i miei coetanei, che ad una prima occhiata tutto sembravano meno che virtuali, potevano benissimo essere frutto dell'immaginazione del Programma.
Se estendevo il concetto, tutto ciò che mi circondava poteva essere solo un'illusione. Certo, sapevo perfettamente che era tutto solo un'illusione. Però da qualche parte, nel mondo reale, dovevano esserci dei ragazzi dormienti, vivi lì davanti ai miei occhi. Eppure, nulla mi assicurava che quei ragazzi dormienti esistessero davvero. Nulla mi assicurava che il Programma non fosse popolato solo dai nove, i cui corpi sonnecchiavano nella mia stessa stanza d'ospedale.
E se fosse esistito un Programma per ognuno di noi? Se fosse esistito un intero universo di cui io ero il punto nevralgico? Tutto intorno a me poteva essere stato scritto per modularsi alle mie azioni, tutti potevano essere solo codici dei Programmatori.
Nulla mi garantiva il contrario.
Scossi la testa. No, non era possibile. Potevo essere davvero io il solo pubblico di una messa in scena così grande? No. Molti dovevano essere reali. E molti no.
Incrociai le braccia al petto, mentre davo le spalle ad una delle tante costruzioni in cui Lobelia era intenzionata ad entrare: si era già fatta tutta la riva destra, io avevo mollato dopo il terzo venditore di pugnali. Rimasi ad aspettarla fuori, ad osservare un bambino e sua madre.
Se la mia teoria era corretta il piccolo doveva necessariamente essere irreale. Eppure aveva tutta l'aria di non esserlo: sbatteva gli occhi con insistenza quando il sole lo infastidiva, e pestava i piedi quando la madre si fermava ad annusare le bancarelle di frutta e lo sentii anche chiederle un ghiacciolo – qualunque cosa fosse. Era più vivo di quanto fossero i bambini nel mondo reale. E se fosse semplicemente programmato per sembrarlo?
Aspettai che percorressero la via fino ad essere ad un passo da me, poi ci sbattei contro.
«Mi scusi! Non l'avevo proprio vista!» dissi alla donna, che si era scansata all'ultimo momento per evitarmi.
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