Pomeriggio passato (da modificare)

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Delle volte, tanto per non star fermo, mi capitava di uscire in comitiva con gente di cui non avevo neanche ben presente il nome, nonostante mi piacesse poco circondarmi di folte compagnie. Per questo, in tali occasioni, preferivo starmene in disparte, e se qualcuno m'interpellava rispondevo per monosillabi, perché mi pareva fatica sprecata discorrere a fiume senza davvero incidere nella conversazione. Se proprio mi veniva voglia di parlare con qualcuno, preferivo star con una o due persone al massimo, perché se si è in pochi le parole non si disperdono e rimangono. C'era questo mio compagno di classe, un certo Amit, con cui uscivo  tre o quattro giorni a settimana. Cogli altri parlava il giusto, con me un poco di più, e sapeva ascoltare, anche quando pareva che pensasse ad altro. Un giorno avevamo deciso d'andare al cinema a vedere Enter the Dragon, film con Bruce Lee come protagonista: la pellicola era vietata ai minori, ma essendo il padre di Amit il proprietario del cinema del paese, saremmo entrati senza rogne. Alle tre e un quarto del pomeriggio giunsi davanti alla casa di Amit, che mi attendeva all'ingresso, seduto sulle scale. Mentre traversavo la strada sterrata, egli s'alzò, barcollando un poco, abbacinato dalla luce del sole, e mi salutò agitando la mano. Quando gli fui davanti, egli, guardandomi cogli occhi appena aperti a fessura, disse:

"Che ne dici se ci prendiamo da bere? Tanto abbiamo ancora tempo."

"Certo. Offri tu o io?"

"Non ho molto, dovrai aggiungere qualcosa tu. Intanto tieni questo", disse Amit e trasse dalla tasca il mio biglietto per il cinema.

Con me avevo ancora qualche rupia: un po' ne erano rimaste dall'ultima uscita, il resto l'avevo scroccato a mia madre, con la scusa che mi servivano soldi per comprarmi un quaderno nuovo; in realtà ne tenevo sempre uno inusato da parte, nascosto in un cassetto, da mostrare come prova dell'acquisto. Dissi ad Amit che avrei offerto io: lui aveva già fatto abbastanza. Il sole ci stava arrostendo la nuca e non tirava vento. Amit camminava accanto a me, guardando in basso, con le mani affondate nelle tasche, senza parlare, e tirava calci ai sassi che gli capitavano tra i piedi. I capelli mi si erano afflosciati sulla fronte, il sudore gocciolava dal mento.

Giunti al chiosco ordinammo della soda, e quando il barista, un uomo pingue e dai modi spicci, portò la roba da bere, andammo a ripararci sotto la scarsa ombra d'un albero lì accanto, per aver un po' di tregua dalla calura. A qualche metro da noi, seduto in terra con la schiena poggiata sul muro arroventato, stava un vecchio con la faccia scavata, che parlottava tra sé: pareva pazzo. Studiai per qualche istante quei tratti spigolosi, ma non vi riconobbi alcun volto che mi risultasse noto, anche solo di vista. Amit si volse verso di me, mi guardò, e disse, canzonandomi: "Va come sudi, sembri un turista appena sceso dall'aereo." Lo guardai di sottecchi, senza rispondergli. Davanti a noi, dall'altra parte della via assolata, era parcheggiata un'auto nera: oltre a quella di mio padre, ne avevo viste poche di auto percorrere le strade lì intorno. A bordo c'era un uomo sbarbato, vestito di bianco, col volto arrossato: elargiva sigarette a dei ragazzi che facevano ressa attorno alla macchina.

"Vuoi fumare?" chiese Amit.

"No."

"Aspettami qui."

"Tuo padre ti ammazza se lo fai."

A questa mia ultima frase non rispose. Lasciò la soda a terra e s'alzò in piedi. Lo seguii con lo sguardo mentre attraversava la strada: s'infilò nella calca vociante e per un attimo non lo vidi più. Poi qualcuno gridò, un ragazzo cadde a terra, alzando un nuvolone di polvere, e vidi Amit fuggir via col pacchetto di sigarette tra le mani.

"Merda!"

Lo rincorsi: in quel momento non guardai se qualcuno mi stesse inseguendo e subito m'infilai in una viuzza tra due baracche e in fondo ad essa vidi Amit che correva. Lo chiamai da lontano, dicendogli di aspettare, ma egli si volse solo quando gli fui appresso da dietro le spalle. Nella mano destra teneva il pacchetto stropicciato, le sigarette tutte spiegazzate. Mi era salito il sangue alla testa. Tirai un calcio a vuoto e dissi stizzito:

"Ora per colpa tua siamo nella merda."

"Meglio divertirsi e andare in galera. E poi non credo che a quel tizio gli importasse molto: se l'è risa."

"Io non l'ho visto ridere."

"Tu non vedi mai nulla."

"Non sono cieco, l'ho visto bene in faccia: non rideva."

"E allora dimmi che faccia aveva."

"Non ricordo, è accaduto tutto troppo in fretta, so solo che non l'ha presa bene come dici tu."

"Allora non hai visto. Io ero lì davanti e rideva."

Inutile replicare oltre.

Arrivati fuori dal paese, andammo per la foresta, seguendo per il lungo il letto riarso d'un torrente. Ci arrampicammo su un albero, nascondendoci tra le fronde: mi sedetti su un ramo robusto, poggiando la schiena contro il tronco; avevo il fiato corto, ma perlomeno là in alto, col tetto di fogliame che riparava dal sole, faceva fresco. Amit stava in piedi su un ramo e s'era già messa in bocca una sigaretta; dalla tasca, prese una scatoletta di fiammiferi. Prima d'accendere mi porse il pacchetto con aria interrogativa. Io feci di no con la testa, ma egli insistette:

"Tanto, che cosa ti costa provare?"

"Non posso: se mio padre scopre che ho fumato mi spella."

"Che fifone che sei dai, se non ti piace la butti. E poi questo sarebbe il meno, visto quel che è successo oggi."

Non senza esitare, decisi di provare a fare qualche tirata: presi una sigaretta tra le dita e Amit l'accese per me. Aspirai il fumo a pieni polmoni: mi sentii bruciare la bocca e dentro il petto. "Fa proprio schifo", dissi io, ma nonostante il disgusto seguitai a tirare. Amit guardava giù verso le radici, facendo anelli di fumo, poi diede dei colpetti con l'indice alla sigaretta e dalla punta ardente si staccarono pezzettini di cenere. Gli domandai se suo padre sapesse del suo vizio. Alzata la testa, Amit mi guardò taciturno e disse:

"Non sa nulla, non ha tempo per me."

Ci fu un attimo di silenzio. Un filo di vento stormì le foglie. Tra gli altri discorsi, Amit mi chiese se mio padre avesse già in mente di farmi continuare a studiare dopo il diploma:

"Sicuro", risposi "lui ha già deciso tutto: mi manderà a studiare ingegneria, in Inghilterra."

"Pensi abbia scelto bene?"

"Non lo so, ma sono obbligato."

Restammo sui rami a discorrere per non so quanto tempo. Amit aveva le idee chiare su quello che voleva fare: non pretendeva molto, sarebbe andato subito a lavorare, senza farsi troppi problemi sul mestiere da scegliere, a lui bastava di guadagnare quel tanto che serve per vivere. Non comprendevo come facesse ad essere così sicuro sul suo futuro: io avevo molte ambizioni, tutte irrealizzabili, ed esse, non concretizzandosi, mi facevano soffrire soltanto. Lui era ben conscio delle sue capacità e, da quanto vedevo, questo lo faceva star meglio. Ad un certo punto finimmo i discorsi. Ora s'udivano solo le cicale. Gola e polmoni non mi bruciavano più e tiravo senza pensare. Guardai in basso verso gli alberi: le ombre si stavano allungando; dissi ad Amit ch'era meglio andare. Feci un'ultima tirata e buttai via la sigaretta con un colpo d'indice.

Verrà la morteWhere stories live. Discover now