Capitolo 9

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Aprì gli occhi e vide il soffitto del baldacchino. Le prime luci del sole penetravano la stoffa, colorandosi di una rassicurante sfumatura cobalto. I frammenti del sogno che aveva fatto si disperdevano tra le onde dei tendaggi, mentre il respiro calmava lentamente il battito del cuore. Un'apocalisse di raggi incandescenti, violenza e morte, tinta di rosso intenso. Correva disperata, la vista annebbiata dalle lacrime, coperta di fango e graffi. Veniva trascinata da un cavaliere che la teneva saldamente per il polso, tentando di salvarla da quella carneficina. La sua tunica bianca era lorda dello stesso sangue che rendeva appiccicose e viscide le proprie dita. E quelle del ragazzo. Sentì bussare e pochi istanti dopo una tenda del baldacchino venne aperta. "Buongiorno principessa. Avete dormito male? Avete un viso così pallido." La sua balia le sorrise piano, le rughe che seguivano come delicati veli i movimenti del viso. Era vestita di nero. Annuì piano, confusa. Il suo viso le sembrava più grande di quanto ricordasse, e meno segnato. Osservò il letto, anche quello enorme. "Oggi dovrete essere forte, e mi dispiace dirvi che non sarà facile." Nello specchio, quando si alzò, notò di essere tornata bambina. Un groppo le chiuse la gola: "Ma.... Ma la Calamità si era manifestata e.... E la stavamo combattendo. Cos'è successo?" "Sarà stato il vostro brutto sogno, principessa." Le strinse i nastri di raso che chiudevano il vestito di seta. Sottili ricami azzurri ritraevano sul bordo della gonna un manto di Principesse Serene, che decoravano anche le maniche e il corpetto. Le era piaciuto davvero molto e lo avrebbe indossato volentieri altre volte da giovane se non fosse stato legato al funerale di sua madre. Ma lei era una bambina, cosa stava pensando? Cercò di raccogliere i frammenti di quel sogno. Era stato così vivido fino a pochi minuti prima, perché ora le sfuggiva? Davvero quell'apocalisse era solo una proiezione delle sue paure e della sua tristezza? Si diede un pizzicotto sulla mano e sentì la puntura familiare del dolore. Dunque sì, era stato tutto uno strano incubo e ora era sveglia. Seguì l'anziana, mano nella mano. Tenne lo sguardo basso. Non poté evitare di pensare a sua madre. Il suo ricordo sembrava così lontano ora, ombre di sorrisi gentili offuscati. Non le era stato permesso di vederla, solo di lasciare alla balia un pegno che sarebbe stato adagiato nella tomba con lei. Quanto tempo fa era successo? Sembravano passati anni e invece era stato appena il giorno precedente: stupido incubo. Scrollò appena il capo e prese posto accanto a suo padre.

Sentiva lo stomaco chiuso. La tristezza era esplosa appena aveva potuto ritirarsi dal funerale. Aveva solo desiderio di dormire, a malapena beveva. Il freddo che la paralizzava, così familiare e già assaporato, non riusciva ad essere temperato nemmeno dal fuoco più vivace. Per fortuna era inverno e qualche piccolo spiffero era proprio la scusa migliore per sedersi vicino alle fiamme, sul tappeto, e lasciare che la mente vagasse attraverso la loro danza baluginante. Il sogno aveva continuato a tormentarla, di giorno e di notte. Una giovane Zora andava incontro alla morte sorridendo senza speranze. Le ali dell'arciere Rito venivano lacerate e lui crollava a terra. Il veterano Goron si teneva al suo spadone gigantesco, in ginocchio. La condottiera Gerudo era costretta spalle al muro, rannicchiata dietro lo scudo alla ricerca di nuove forze. Quel cavaliere, pallido e scarlatto, esalava respiri fievoli, tra le sue braccia. La lucentezza dei suoi occhi azzurri gocciolava via insieme al sangue. Sentì bussare alla finestra e trasalì, le immagini di morte che venivano restituite alle fiamme. Scostò le tende e vide quelle iridi di zaffiro attraverso il vetro. Gli aprì e lui entrò. Nel suo sogno mostrava più di diciassette anni, davanti a lei c'era un bambino: come lei del resto. L'odore della torta di mele ancora calda la raggiunse e quasi non crollò in ginocchio. Le aveva portato il suo sorriso e il dolce. Nuovamente, o no? La sua lingua aveva già mangiato molte volte la torta di mela, la crosta che si impregnava del dolce succo caramellato, eppure quella era diversa. Lo sapeva ancora prima di addentarla, di vederla: quella era la fetta che l'aveva fatta parlare con Link per la prima volta. Ma lui non disse nulla. Le porse imbarazzato il fagotto e sparì oltre il balconcino, agile come un gatto. Beh, mica si poteva aspettare che le cose andassero come nel suo sogno. 

Con il passare dei giorni l'incubo divenne sempre più offuscato. Solo ogni tanto tornava prepotentemente questo o l'altra scena, in contrasto con ciò che le accadeva nella vita reale. Sinceramente potevano anche essere solo aggiunte che la sua mente creava da sola. Non era possibile che un sogno fosse così dettagliato: nemmeno le sacerdotesse che potevano vedere strappi di futuro avevano chiari singoli eventi. Figurarsi lei, che non sentiva nemmeno una goccia di potere nelle proprie vene. Perché la Dea le avrebbe inviato una visione a tal punto espressiva se poi non rispondeva alle sue domande? L'aveva forse abbandonata perché non aveva capito a cosa si riferissero le immagini oniriche? Cosa potevano rappresentare se non un futuro catastrofico. Come avrebbe dovuto evitarlo? Non usando il potere dei Guardiani e dei Colossi? Ma da soli non avevano speranza di sconfiggere quella bestia di odio e terrore. Le tremarono le gambe al solo ricordo di quell'atrocità ed ebbe una vertigine. Era solo una bambina, perché la Dea non voleva aiutarla? 

Urbosa, che le era sempre stata al fianco anche nelle sue angosce più profonde negli anni era divenuta distante. Diceva che gli Yiga si rafforzavano nel suo deserto e che le moldenottere, le gigantesche imperatrici delle sabbie, diventavano più pericolose e numerose ogni giorno che passava, costringendola a continue e faticose cacce. Suo padre la evitava, e la corte imitava il sovrano. Quando percorreva i corridoi non si preoccupavano più di mascherare i loro pensieri: li esprimevano a voce bassa, bisbigliando accigliati all'orecchio del vicino o borbottando tra se stessi. Non aveva più nemmeno il coraggio di alzare lo sguardo. La Dea non rispondeva ai suoi disperati richiami e la abbandonava nel silenzio del tempio. Le lacrime le gonfiavano gli occhi e allora andava a vedere gli allenamenti dei soldati, sperando che il sole le alleviasse le emicranie e che il clangore delle armi la distogliessero dall'angoscia che la macerava. Seguiva con lo sguardo soprattutto un cavaliere. Link del lupo possedeva la mente fredda e l'eleganza, del cervo la leggerezza e la rapidità di riflessi. Eppure lei ricordava anche altre sfaccettature, sapeva che c'erano. Non le aveva mai rivolto più di un viso inespressivo in tutti quegli anni e nonostante questo lei sapeva che il suo sorriso era il più sincero che potesse sperare di avere da qualcuno. Aveva visto le sue iridi ora accese di eccitazione come una gemma colpita dalla luce, ora fuse di desiderio come le acque di un fiume al disgelo. Sapeva di aver vissuto altre vite, ma non rammentava degli occhi degli altri. Erano quelli del giovane lupo freddo e distante che aveva davanti: lo sapeva dalla piega e dalla sfumatura dei suoi capelli dorati, dal profumo particolare della sua pelle, che ricordava il vento di montagna, dalle ferite che lei aveva visto solo come cicatrici. Ma dove aveva potuto notare quelle sfumature? Quando? Erano sempre stati divisi eppure la notte ricordava chiaramente di averlo abbracciato sotto la melodia di una pioggia primaverile. Doveva sperare che almeno quelle domande trovassero una risposta.

La fonte del monte Ranel era fredda e le dita le si stavano intorpidendo, mentre il sole si alzava al suo picco. Le preghiere non trovavano risposta, non sapeva nemmeno se venivano udite. Una goccia di sangue cadde nell'acqua: le unghie si erano conficcate nel dorso delle mani riunite in preghiera. Sentì la presa gelida dell'acqua abbandonare le sue caviglie per il tempo di un battito di ciglia. "Zelda!". Fruscio di metallo contro il cuoio e il fragore di due spade che cozzavano. Si voltò e vide l'impossibile: due Link si stavano affrontando, perfettamente identici. Era stata la sua voce a chiamarla. "Zelda, risvegliati, tutto ciò non è vero!" "Cosa sei, demonio? Una nuova trovata della Calamità per ferire la principessa?" La furia dei loro colpi non avrebbero risparmiato nessuno, ma come sconfiggere la propria ombra? "Zelda, sai che questo non è vero, che è un'immensa illusione!" Incrociò i suoi occhi: erano gli zaffiri che aveva imparato ad amare. Icore dorato stillò dalla ferita sulla sua spalla quando la lama penetrò: crollò in ginocchio. Il volto dell'avversario era trasfigurato in un sorriso di feroce goduria, il corpo emanava miasma di un malsano nero violaceo. Il suo piede premette sul filo della lama e questa arrivò a sfiorare il cuore. Un colpo di luce disintegrò il corpo del falso e Zelda corse dal suo amato, mentre il paesaggio idilliaco della fonte si distorceva attorno a loro in un'oscurità temporalesca, l'illusione dispersa da uno squarcio nel suo scenario teatrale. Si abbracciarono. "Non ho tanto tempo, è solo grazie a Farore che ho potuto incontrarti ancora." "Ha usato le mie paure per intrappolarmi." "No, per combatterti. Perché ci sei riuscita Zelda: lo stai tenendo sigillato nel castello e Hyrule per ora è salva." "Io... Credevo fosse tutto un sogno." Lo sguardo di Link si intristì: "Purtroppo è tutto vero e tra poco tornerò al mio sonno." Si strinsero con maggior forza. "Non so se ce la farò senza di te." "Zelda, non avere più paura: sei più forte di quanto pensi e ce la farai. Arriverò il prima possibile: te lo giuro." Si baciarono, prima che il buio li inghiottisse.

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