Prologo

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Sola al mondo. Mi sentivo estremamente sola, mentre passavo un fine settimana con la mia famiglia fuori città. L'idea era di trascorrere del tempo insieme, lontano da Londra e dalla confusione della metropoli. Spesso decidevamo di partire per delle brevi gite, giusto per il gusto di evadere dalla quotidianità. Martha, mia sorella maggiore, aveva portato con sé il suo fidanzato storico, e trascorrevano la maggior parte del tempo persi in infinite discussioni su di un loro futuro (e alquanto improbabile per ora) matrimonio.

Non si poteva certo dire che fossimo una famiglia perfetta; al giorno d'oggi è quasi impossibile trovarne una, forse. Però ero fortemente convinta che queste gite potessero servire per passare del tempo prezioso insieme. Invece spesso mi sentivo estraniata da tutto e tutti. Desideravo che per qualcuno la mia opinione fosse davvero importante, e non considerata una semplice chiacchiera. Smaniavo, cercando di liberarmi da un'invisibile camicia di forza dalla quale mi sentivo avvolta.

Vivevo ancora felice nel mondo dell'ingenuità, della protezione domestica e della fanciullezza. Ero cresciuta nel corpo, ma non nell'anima. Guardavo i bambini quasi con invidia, non costretti a giustificarsi di nulla, liberi di poter essere innocenti. Sul mio viso ancora splendeva il candore tipico dei fanciulli, che solo mio padre, Stefan, sapeva apprezzare, o almeno difendere. Le mie amiche si chiedevano il perché proprio io, all'età di venticinque anni, non avessi ancora sperimentato l'amore, ma non l'Amore di cui effettivamente andavo alla ricerca, come quello di Elizabeth Bennet e Fitzwilliam Darcy, ma quelle storie destinate a durare il tempo di un battito di ciglia. Ed erano proprio le persone più vicine a me che mi facevano sentire orribilmente in difetto. Come se poi fosse realmente colpa mia.

Dovevo prendere una decisione e gettarmi nel caotico e distratto mondo degli adulti. Finito il massacrante fine settimana in famiglia avrei iniziato a inviare curriculum a diverse società, negozi, imprese. Qualsiasi cosa pur di non dover passare le mie intere giornate chiusa in casa a studiare materie inutili di un corso di laurea ancora più inutile, almeno per le mie aspirazioni personali. Ero convinta della decisione presa. Volevo, o meglio dovevo impormi di volere, che da lì in avanti la mia vita avrebbe preso una svolta diversa.

Improvvisamente la mia voglia di parlare svanì in quel divano a righe gialle e arancioni in un posto disperso nel verde della campagna londinese. Sparì la paura di cominciare a vivere.

"Lenore vieni a tavola, è pronto." Urlò mia madre dalla cucina. Allontanai velocemente i miei pensieri, pronta a sfoggiare il mio sorriso migliore.


Tasto Invio. Anche l'ultima email era stata inviata e potevo finalmente recarmi a dormire nel mio piccolo letto Ikea, che avevo addobbato con mille cuscini e lucine attorno alla testata. Dividevo la camera con Martha. Anche se dividere non era forse il termine più appropriato da usare. Mia sorella si era impossessata di gran parte dei mobili della stanza per poter ordinare il suo rifornitissimo armadio alla moda. Ma a me stava bene così; il mio guardaroba infatti non contava numerosi capi di vestiario, tanto meno accessori. Non amavo la moda perché non mi piaceva ammirarmi allo specchio. Non ero secca e statuaria come mia sorella, ma anzi avevo curve prosperose, che sarebbero state adeguate decenni prima e non ora, in una società che richiedeva fisici piatti e statuari. Per di più preferivo utilizzare l'armadio come ulteriore nascondiglio in cui poter conservare i miei amati libri, perfetti compagni di avventura nella mia solitaria quotidianità.

Stefan non aveva accolto poi così bene la mia decisione di lavorare perché temeva che non avrei proseguito gli studi. Io e mio padre nel tempo avevamo consolidato un rapporto molto speciale, fatto di alti e bassi come in tutte le famiglie, ma quando avevo bisogno di qualcuno era tra le sue braccia che mi rifugiavo. La complicità era l'aspetto più importante, più bello del nostro rapporto. Non importava quel che accadeva, ci spalleggiavamo a vicenda e soddisfatti ci scambiavamo sguardi complici. Stefan era un padre diverso rispetto ai canoni del tempo, amava passare del tempo con me e Martha e non ci lasciava mai davanti ad uno schermo privo di contenuti, cercando anzi di coinvolgerci sempre nei suoi mille progetti, mentre mia madre, era a lavoro. Era proprio Charlene infatti a mandare avanti una piccola ma graziosa bakery, aperta quando lei era bambina. Era situata a pochi metri dalla nostra abitazione, in Chiswick High Road. L'intento era quello di dar vita ad un negozio che fosse soprattutto un luogo d'incontro per le persone del quartiere. Nel mio tempo libero correvo a dare una mano, soprattutto in cucina. Amavo perdermi nel mondo delle pentole e dei frullatori.

Il mio tenore di vita era in realtà molto semplice per una ragazza che vive in un'epoca di eccessi, forse anche troppo semplice direbbe qualcuno. Sono quel tipo di persona che preferisce sognare ad occhi aperti, leggere un buon libro invece di passare le proprie serate in discoteca, nella spasmodica ricerca di trovare un ragazzo, del quale il mattino dopo non avrei ricordato né il nome né il suo aspetto. Forse questa mia visione della vita era dovuta da un numero eccessivo di romanzi d'amore che avevo letto nel corso degli anni, arrivando a crearmi delle aspettative talmente alte sul genere maschile, da illudermi di poter effettivamente trovare il famoso (e ormai svalutato) principe azzurro.

Forse proprio per questo ancora non ero mai stata fidanzata. Una ragazzina, ecco come la definivano molti dei suoi parenti, un fantasma, ecco cos'ero per tutti. La sicurezza di sé era una qualità che non apparteneva al mio carattere e purtroppo lo rispecchiavo anche esteriormente.

Chiusi gli occhi, pregando che l'indomani portasse qualche lieta novità.  

Cenerentola col PalloneWhere stories live. Discover now