𝑃𝑟𝑜𝑙𝑜𝑔𝑜

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Jena, 13 marzo 1988

I miei passi risuonavano grevi tra i corridoi di quella clinica che urlava ricchezza da ogni angolo. Le pareti erano addobbate da cornici massicce e quadri importanti, sopra una carta da parati color panna con qualche motivo floreale di un rosa cipria tenue.

Il mio cuore batteva leggermente più veloce del normale, ma quello era un giorno fuori dalla routine che mi accompagnava ormai da quando avevo lasciato l'università e rilevato l'attività di famiglia. Molte erano state le conseguenze dell'improvvisa e inaspettata dipartita di mio padre, ma mai avrei potuto lasciare che qualcun altro prendesse il suo posto, qualcuno che non fosse di famiglia e mio fratello, molto più piccolo di me, sicuramente non era ancora pronto.

Avevo mille pensieri che vorticavano nella testa: conti, fatture, bilanci che non tornavano, mille accordi in programma, ma in quel momento dovevo essere presente per il mio migliore amico.

Percepivo le mani calde, fin troppo, quasi quanto la fronte che, inumidita, stava per far cadere qualche piccola goccia di sudore lungo le tempie. Il respiro si faceva irregolare in perfetta sintonia con il battito del mio cuore ad ogni metro di distanza che i miei passi annullavano.

Nonostante fosse già la terza volta che accadeva, mi sentivo esageratamente elettrizzato.

Era come se il mio corpo fosse stato già a conoscenza che quel giorno la mia vita sarebbe cambiata, per sempre.

Arrivato davanti alla stanza numero 20, passai il dorso della mano sulla fronte, tentando di ricompormi. Con l'altra mano strinsi nuovamente il berretto newsboy - l'ultimo regalo di mio padre - e presi un respiro profondo.

Cercai di ignorare quella piccola fiamma di gelosia racchiusa nel fondo del mio cuore. Ero lì per un motivo meraviglioso, eppure non riuscivo a non provare invidia per il mio migliore amico e per quella vita che stava costruendo, giorno dopo giorno, con la donna che più amava al mondo.

Non mi ero mai innamorato, non sapevo cosa fosse l'amore.

A vent'anni era difficile prendersi cura di se stessi, figurarsi pensare a prendersi cura di un altro essere umano.

Eppure questo pensiero non era mai passato nella mente di Karl, nemmeno quando a sedici anni aveva scoperto che sarebbe diventato padre. Aveva abbandonato gli studi diurni, si era messo a lavorare nella fabbrica di famiglia e durante la notte seguiva delle lezioni per terminare gli anni accademici rimasti per avere quel pezzo di carta che donava, in qualche modo, una certa rispettabilità all'interno della società.

Non aveva mai abbandonato la madre di suo figlio, divenuta poi sua moglie a tutti gli effetti non appena avevano compiuto la maggiore età. Quella giornata la portavo nel cuore grazie all'amore e alla perfezione che avevano caratterizzato l'intima cerimonia, insieme alla grande notizia di una nuova vita in arrivo.

Karl a diciotto anni aveva già due figli, mentre io dovevo ancora capire quale fosse la mia strada.

Erano passati due anni da quel momento e la mia vita era stata decisamente capovolta da eventi lontani da qualsiasi forza terrena. Mia madre continuava a pregare, sostenendo che si trattasse di destino e di qualche piano più grande di noi.

Tutto quello che realmente sapevo però, era che mentre il mio migliore amico stava per accogliere altre due meravigliose vite nella sua, io non avrei mai voluto avere nessuno da abbandonare quando sarebbe giunto il mio momento.

Non potevo sopportare l'idea che qualcuno provasse il dolore che avevo provato io quando la persona più importante della mia vita, mi era stata strappata via.

𝑀𝑟. 𝑊𝑖𝑛𝑡𝑒𝑟Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora