Ieri, sul lungomare della mia città di fronte a uno dei monumenti più importanti, c’erano per terra circa una ventina di paia di scarpe rosse accompagnate da altrettanti nomi di donne vittime di violenza. In anticipo di un giorno, ma di domenica il lungomare è frequentato da molta più gente ed è stato bello vedere che per gli schermi dei telefonini dei passanti, per una volta, erano rivolti a terra e non al solito scorcio di mare che si presentava loro davanti. Oggi, in una casuale conversazione per telefono con mia madre, con entusiasmo le ho raccontato quello che avevo visto e lei, con un cinismo che di solito è il mio, ha commentato: “Troppo poche, qua.” Ora, in un’altra parte di Italia quel “qua” avrebbe poco senso, ma per me non è stato difficile capire a cosa fosse riferito. Nella mia terra, dove certi cognomi suscitano una timorosa deferenza e dove certi modelli di comportamento antisociali fanno ancora proseliti, la violenza di genere prolifera, senza, però, suscitare l' ndignazione dovuta. Da spettatore esterno, l’alzare le mani su una moglie o una figlia, sembra niente se l’uomo reo di queste cose ha all’attivo crimini ben più gravi. Invece, è tutto perché violenza di genere e sistemi criminali si alimentano a vicenda in un intricatissimo rapporto di causa ed effetto, difficile da sbrogliare. Ed ecco perché quando sento dire che il patriarcato è mera ideologia, lo stomaco mi si contorce per la rabbia. Per moltissime donne, e non solo quelle dai cognomi “altisonanti”, non è ideologia. È non poter indossare una gonna, è non poter uscire con le amiche, è non poter scegliere di frequentare la scuola che vogliono, è vedersi negato il diritto di essere loro stesse in nome di un modello arcaico di comportamento. Per tutte queste donne, il patriarcato non viene dopo le questioni più “pratiche”, quelle su cui i politici fanno leva per guadagnare il consenso pubblico; per loro, il patriarcato è un problema reale, tangibile, ma, più di tutto, urgente!