Even if the skies get rough

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Tornai a casa, come lui mi aveva chiesto di fare. Con un'eccessiva calma per la situazione che si era appena creata, ma la calma era del corpo e non della mente che cercava in tutti i modi di trovare una soluzione. Pensavo, pensavo e non facevo altro che pensare a cosa, a chi rivolgermi, dove andare, cosa dire. Mi fermai al centro esatto della mia stanza osservando il cielo blu, particolarmente blu quella mattina. Un cielo incurante di ciò che stava accadendo intorno a se, che riusciva a bastarsi da solo e a risplendere in tutta la sua forza. Volevo essere come lui ma sapevo che non potevo. Troppi erano i legami che mi tenevano stretta alla mia realtà. Richiusi le braccia attorno al petto e avanzai verso l'enorme finestra. Stavolta mi guardai intorno, prima a destra e poi a sinistra. Non vidi altro che persone intente a correre verso le proprie mete, concentrate esclusivamente sul proprio da farsi. Mi resi conto che non potevo continuare a stare ferma, immobile mentre lui chissà in quale situazione poteva trovarsi. Temevo potessero fargli del male fisico ma soprattutto psicologico. Speravo nella sua innocenza e temevo che fosse stato incastrato in qualche imbroglio. Iniziai a muovermi cancellando dalla mia mente immediatamente le parole di Louis e il suo viso compassionevole che le esprimeva. E come una specie di illuminazione decisi di andare dalla madre. Da Johannah.

Non sapevo se ci fosse qualcuno in quella casa ma volevo comunque provarci. Bussai convinta il citofono aspettando alcuni interminabili minuti. Riprovai una seconda volta, anche stavolta non ricevendo alcuna risposta. Mi girai verso il cortile che avevo alle spalle, sperando che qualcuno all'improvviso sbucasse dal nulla. Le mani iniziarono a tremarmi seguite dalle pupille che sentivo piano piano bruciare. Tutta quell'ansia che avevo mantenuto e provato a contenere ora si stava liberando rendendomi inverosimilmente debole. Mi presi il viso fra le mani ormai prossima ad un pianto infinito. Le gambe si portarono verso il pavimento dove continuai quella mia orribile tortura. Gli occhi di Louis si fissarono nel buio dei miei pensieri e per me non ci fu mai immagine più dolorosa. Volevo, ma avvertivo di non poter fare nulla perché troppo debole nei confronti di ciò a cui sarei andata incontro.

Sola no, era impossibile.

Con l'aiuto di qualcuno forse si.

E una scintilla mi risvegliò quando presi il cellulare in mano e digitai il numero di Alexandra. Con la gola che inaridiva e i polmoni stanchi di quell'affanno mi preparai per la richiesta d'aiuto.

"Pronto?"

"Alexandra, ho bis - ogno del tuo aiu - to"

"Cosa succede, Gabrielle?"

"Louis"

Pronunciai il suo nome come una tortura talmente dolorosa. Il suono del mia voce fu flebile e incerto.

"Dove sei? Arrivo subito"

Non mi diede il tempo di pronunciare nessun'altra spiegazione o parola. Aveva percepito dalla mia sola voce la circostanza orribile in cui potevo trovarmi. O forse lo aveva capito dal suo nome, ed era bastato quello a mandarla in allerta.

Erano passati circa dieci minuti dalla mia chiamata quando il rombo della macchina di Alexandra mi pervase le orecchie in quel quartiere che sembrava abbandonato. Mi feci forza e mi tirai in piedi, facendo segno con la mano sinistra che agitavo in alto. Dal finestrino leggermente oscurato notai il suo sguardo preoccupato e non impiegò molto a scendere e a correre nella mia direzione. Appoggiò veloce una mano sulle mie spalle e mi raccolse sotto la sua attenzione.

"Gabrielle, ma che cazzo è successo? Hai una faccia orribile"

La guardai in volto e notai così tante sfumature di paura, di inquietudine, di ansia che il mio cuore si sentì subito più leggero avendo trovato una persona così buona capace di aiutarmi. Eppure non ebbi la forza di pronunciare una parola; mi limitai ad abbassare gli occhi verso le sue scarpe che brillavano di un nero corvino ai raggi intensi del sole.

Ropes (Louis Tomlinson)Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora