Occhi che aspettano

213 16 1
                                    

Una frenata brusca  e l’automobile si ferma a un centimetro dai miei piedi. Il finestrino scende e lui si sporge verso di me.
-Sali per favore. Le domande, dopo-
Luis sapeva quanto fosse importante per me lavorare vicino al mare, sulla costa, lungo le linee di avvistamento.
Così, appena si era liberato un posto come guardiano del faro, aveva fatto subito il mio nome alla capitaneria ed era corso a prendermi per potermi presentare prima di altri.
Probabilmente la concorrenza non sarebbe stata numerosa, ma era meglio non rischiare.
Lui e sua moglie erano stati per me la cosa più vicina a una famiglia che avessi mai avuto.
Sono stati anni girovaghi i miei, di case affidatarie e di sguardi dove leggevo la data di scadenza fin dal nostro primo incontro.
Con loro è stato diverso.
Ero già grandicella quando entrai nella loro vita, e senza bisogno di adozione sono sempre stati interessati a conoscere i miei sogni e i miei incubi.
Anche ora che sono cresciuta.
Questo lavoro, che avevo voluto con tutta me stessa, mi avvicinava a un’antica promessa.
Mentre mi accompagnavano al porto Luis e Sabrina cercavano di essere allegri, euforici.
Troppo euforici, la loro preoccupazione si incuneava nelle note acute delle loro risa.
Ormai ero una donna e loro conoscevano i miei desideri da tanto tempo.
Mentre salivo a bordo della nave che portava ogni due mesi gli approvvigionamenti sull’isola, mi voltai e li ringraziai sommessamente per questo modo bugiardo e eroico di lasciarmi andare.
Poi il mare occupò tutto il mio sguardo, finché non lo vidi.
Il vecchio faro, rimaneva impassibile al mio arrivo, come un vecchio burbero che non vuole dare confidenza e soddisfazione.
Mi fece tenerezza.
Scesi dall’imbarcazione e gli andai incontro.
Alle sue spalle, i colori violacei del crepuscolo, rendevano il suo pallore più irreale.
Mi avvicinai, toccai il suo corpo invecchiato e rugoso, eroso dalla salsedine e dal sole, per il troppo mirare il mare.
Ora saremo stati in due a farlo.
Con mio grande sollievo la nave ripartì presto, non prima di essermi subita gli sguardi di derisione e lascivia, dei marinai.
I miei occhi di ghiaccio, i capelli ricci, la mia bambolina al collo, mutarono il loro desiderio in paura.
Ma un uomo non può avere paura di una donna, almeno non sulla terraferma, così le voci sulla mia  figura da strega, passarono presto di bocca in bocca.
Questo sarebbe bastato per salvaguardare la loro virile reputazione.
Io ben mi guardai da volerli smentire, anzi misi il crocifisso a testa in giù, per motivare ancor più, la loro atavica superstizione.
Nelle notti a venire imparai a riconoscere i rumori del silenzio.
Il mare vociava assordante nella burrasca, concertando col vento ululante.
Al buio, tutte le sere, salivo sulla sommità del faro per verificare il funzionamento della lampada, e il mio sguardo si faceva attento a seguire il suo fascio di luce, in cerca di qualcosa che sarebbe arrivato.
Il sonno si approfittava di me, regalandomi sempre un risveglio agitato, in preda a incubi e sensi di colpa per la paura di essermi persa quello che dovevo vedere.
Ma non ci fu mai niente da vedere.
Vidi per ben otto volte arrivare la nave dei rifornimenti.
Con un meccanismo antidiluviano approdava aprendo un boccaporto cigolante, che sputava fuori i pochi uomini con i viveri.
Il loro atteggiamento nei miei confronti era sempre più indisponente.
Non passava neanche per la loro testa di colloquiare con me, come avrebbero fatto col vecchio guardiano uomo.
Ero abituata a stare sola e a non essere amata.
Questa notte mi abbandono sulla branda, sono così stanca.
Sotto il cuscino il mio rasoio affilato mi rassicura al solo toccarlo.
Ma il mio incubo ricorrente mi risucchia nel suo vortice di terrore.
Mi vedo bambina , coperta con un telo colorato, sopra un barcone pieno di gente che sta male, ma in silenzio.
Le sole urla che si sentono sono quelle di un uomo con i denti cariati e i baffi grossi.
Ricordo l’abbraccio di mia madre, mi schermava dal mondo.
Il vento si alza, le onde ci sconquassano, il mio telo cade.
I miei ricci biondi, seguono il vento, i miei occhi chiari, pieni di paura, dichiarano la colpa di essere una bambina africana albina.
L’uomo urla ancora di più mi vuole prendere, mia madre prova a ferirlo, ma lui la colpisce, il rasoio cade, io lo raccolgo senza accorgermene.
Mia madre mi stringe a se e ci buttiamo nell’acqua fredda e buia.
Non so per quanto tempo stiamo così.
La sento lamentarsi, forse è ferita.
Sento le sue ultime parole” devo lasciarti, veglia l’orizzonte, tornerò  per te, tu mi vedrai”.
Mi sveglio, mentre sento che lei mi abbandona.
Mi salvarono dei pescatori, ma da allora la perdo ogni notte.
Così, come ogni notte, mi siedo sul letto madida di sudore allungando la mano per non farla andare via.
Da allora appena posso scruto il mare, aspettando.
Cosa?
Lei, quell’uomo, il mio destino?
Forse solo la notte che cala e il sole che sorge.
Un rumore dissonante mi desta e mi ritrovo già in piedi che corro per salire sulle scale.
Il fascio di luce del faro illumina un gommone, delle urla si disperdono nel vento.
Avviso la capitaneria e scendo a prendere il coltello e  la pistola di segnalazione.
Corro verso la spiaggia, il gommone imbarca acqua e si è schiantato sulle rocce.
Un uomo inveisce, nella  lingua di mia madre, contro una donna e due bambini, capisco che li accusa della sventura e li sta colpendo con un bastone.
Gli dico di fermarsi, non mi ascolta, gli sparo un razzo contro.
Il suo occhio si accende.
Il dolore lo porta a ributtarsi in acqua, io mi avvicino al gommone arenato, cerco di calmare i bambini, li guardo, sono gemelli.
Nella terra di mia madre la pelle candida e condividere lo stesso utero, sono segnali di sventura. Come sempre la diversità spaventa.
Guardai rapita il volto della donna, la determinazione,  paura e coraggio insieme.
Lo stesso sguardo lasciato in mare.
Presenti ad un appuntamento che non sapevamo di avere mandai un bacio fra le onde.

.











EDS7 MISTERYDove le storie prendono vita. Scoprilo ora