CH. IV

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La luce era infernale, e faceva caldo. Con un movimento pigro e uno sbuffo insofferente, Victoir insinuò l'indice tra la pelle coperta da un fastidioso velo di sudore e il colletto della camicia, allargandolo non più di un paio di centimetri; non abbastanza da ottenere sollievo, ma più che a sufficienza per dare a intendere quanto starsene seduto sul davanzale della finestra, con le spalle appoggiate al muro e la tempia premuta contro il vetro, gli richiedesse uno sforzo.

Ancora qualche minuto, al massimo mezz'ora, e finalmente il sole sarebbe sparito oltre lo skyline newyorkese. Sarebbero servite alcune ore affinché i muri rilasciassero tutto il calore immagazzinato durante la giornata, ma almeno la luce che lo colpiva dritto in faccia si sarebbe estinta.

C'erano tante cose che Victoir detestava, la luce naturale era solo una voce dell'elenco. Eppure, anche la nausea che la lunga esposizione ai raggi del sole suscitava in fondo al suo esofago diventava sopportabile quando non era da solo.

Quando c'era lei.

Per questo motivo era rimasto lì, su un davanzale bollente e con la sgradevole sensazione dei capelli incollati alla fronte, nonostante l'istinto di cercare riparo nella penombra. Perché seduta all'altro capo del davanzale c'era la persona più importante della sua vita, l'unica in grado di stimolare il suo atrofizzato spettro emotivo e dargli l'impressione di essere vivo.

Quei brevi e rari momenti di intimità erano, per Victoir, qualcosa a cui aggrapparsi quando la sua condizione di perpetua apatia non lo faceva sentire diverso da un qualunque soprammobile privo di valore. Erano la sua unica prova di avere lo stesso diritto di vivere e di inseguire la felicità di chiunque altro.

Ma a che prezzo.

Un quasi impercettibile scatto delle iridi di lei parlò più di qualunque dibattito avessero avuto sul loro legame: non ricominciare, Victoir. Lei riusciva sempre a leggerlo come un libro aperto, come se la sua mimica facciale non fosse stata rasente lo zero. Per quanto convincente, il silenzioso ammonimento non impedì però a Victoir di sospirare con rassegnazione e spostare lo sguardo fuori dalla finestra, sul vialetto alberato che si perdeva nello sfondo rosseggiante del tramonto.

Il frinire delle cicale fu sovrastato dallo scoppiare di una risata cristallina in fondo alla strada brulicante di carrozze, e i suoi nervi già provati non ressero il suono della felicità altrui.

«Così non va bene. Tu meriti di meglio...» biascicò a denti stretti, stringendo i pugni fino a sentire le unghie premere contro la carne.

Non gli importava di essere accusato di aver rovinato il loro momento di serenità: a furia di ripeterselo, sperava che prima o poi entrambi si sarebbero convinti a fare la cosa migliore, separarsi definitivamente. Sapeva che nessuno oltre lei l'avrebbe mai amato per quello che era, ma neanche questo gli importava. Tutto ciò che Victoir desiderava era che lei vivesse la sua vita al meglio. Aveva tutto: una famiglia pronta a sostenerla nella realizzazione di ogni suo sogno, un'imbarazzante quantità di pretendenti abbagliati dalla sua bellezza e dal suo carisma, un talento invidiabile e una carriera promettente.

E lei, tra tutti, aveva scelto lui.

L'unica opzione che l'avrebbe distrutta.

Ogni volta che ci pensava, ovvero ogni volta che erano soli e lei non perdeva tempo a cercarlo, Victoir si sentiva la persona più crudele del mondo. Perché, nonostante sapesse che avrebbe condotto alla rovina la persona che amava, non riusciva a resistere al suo tocco leggero.

Adesso non sapeva più se la sensazione di nausea era causata dal sole, dalla calura aggressiva o dalla confusione che si mescolava alla paura di ciò che il futuro aveva in serbo per loro.

ADIAPHORAWhere stories live. Discover now