CH. X

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Il gruppo di nani pestiferi si disperse con la foga di un ciclone nella pace di una nevicata che non accennava a diminuire d'intensità. Quegli strilli allegri gli sarebbero rimbombati nel cervello per tutta la giornata. Come a voler confermare quel sentore, una prima nevralgia trafisse la tempia destra di Victoir, ancora intento a scrollarsi di dosso la neve da posti impensabili come l'interno del colletto della camicia.

Una sequenza di movimenti meccanici lo portò a sfiorare inavvertitamente l'emblema della Black Court ricamato sul mantello, all'altezza del cuore. Aveva sempre mostrato con orgoglio quel simbolo. Pur essendo consapevole che la suprema corte di giustizia dell'Overword non fosse giunta al potere senza sporcarsi le mani, la sua fiducia nell'ideale su cui essa si fondava, nel giudice Fitzgerald e soprattutto nei suoi genitori - i suoi eroi - non l'aveva mai fatto vacillare.

Si guardò intorno, alla ricerca di figure umane in quel Confine che si svuotava al suo passaggio, ma la desolazione che sentiva dentro sembrava riflettersi sul mondo esterno. Nessuno avrebbe appoggiato lui o la Black Court, ma almeno adesso sapeva perché e soprattutto come tentare di rimediare agli errori del passato.

Strinse con vigore il pugno sulla stoffa del mantello, riducendo il disegno della bilancia a un ammasso di pieghe.

«Non ti facevo tipo da bambini.»

Lo scatto della porta che si apriva e una voce ormai familiare lo fecero voltare verso l'ingresso del Plough. Nonostante la corporatura solida e l'altezza notevole, Alaric aveva l'aria affranta di un cane bastonato e una guancia inscurita da un livido.

Victoir, abituato a vederlo serio e solitario o con un sogghigno sarcastico arricciato sulle labbra, sbatté le palpebre e si perse a osservarlo come se fosse stata la prima volta che lo vedeva. Per quale assurdo motivo i suoi colleghi l'avevano colpito? Che senso aveva la violenza che continuavano a seminare dal momento in cui si erano incrociati ai cancelli del Confine? Victoir non capiva, anzi si sentiva sempre più incapace di capire.

Un eloquente movimento verso l'alto delle sopracciglia di Alaric gli suggerì che toccava a lui parlare.

Emise una lunga e inconcludente vocale. «... Infatti li odio, i bambini.»

Le sopracciglia di Alaric fecero un altro strano movimento, stavolta aggrottandosi. Doveva trattarsi di confusione, dedusse Victoir. Quindi stavano provando lo stesso stato d'animo, per quanto in lui fosse debole come un alito di vento, più simile a un fastidio di fondo che poteva facilmente ignorare.

«E... perché giocavi con loro?»

«Perché...» urgeva una spiegazione, ma il cielo pallido, a cui alzò brevemente lo sguardo, non gliene fornì alcuna. «Perché non si smette di giocare quando si invecchia, ma si invecchia quando si smette di giocare.»

Peccato che non fossero parole sue, ma la blanda giustificazione che suo padre propinava quando veniva beccato a rotolarsi sull'erba con sua sorella durante la loro infanzia. Erano sempre stati due spiriti liberi, caldi come il sole, diametralmente opposti a lui e alla sua fredda razionalità.

Alaric non parve per niente impressionato da quelle parole, e se lo era Victoir non lo notò.

«Certo, saggio cinese. Tieni.» annuì, tornando finalmente il solito Alaric, e con molta più scioltezza si avvicinò per passargli le monete avanzate e il caffè richiesto, contenuto in una tazza di rame sbiadita dal tempo.

Arricciando il naso, Victoir notò subito qualcosa che non gli piacque. «È corto! Come diavolo fate voi europei a bere questo veleno?»

«Come diavolo fate voi americani a bere quella roba annacquata, vorrai dire!» lo rimbeccò l'altro, per la prima volta in sua presenza lasciandosi scappare una risata sincera. «Andiamocene, non voglio farmi vedere coi cani della Black Court.»

ADIAPHORAWhere stories live. Discover now