Capitolo 7 - Come il sole ad Est

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Rendersi conto che l'assenza di un maledetto sogno Disney lo aveva reso agitato in quel modo aggressivo, lasciandolo in balia dei pensieri più insidiosi e autovalutazioni che solo Osamu sarebbe stato capace di produrre, beh, non era previsto.

Non erano state previste tantissime cose solo negli ultimi due giorni, quindi la novità non avrebbe nemmeno dovuto lasciarlo scombussolato come, invece, si sentiva: ormai avrebbe dovuto essere abituato.

Invece, l'assenza di un corrispettivo onirico lo rendeva ... irrequieto. La sentiva una mancanza stranamente fisica, un qualcosa che avrebbe dovuto esserci e che invece non si era presentato, qualcosa di così importante e ingombrante da lasciarlo a riflettere più del dovuto.

Perché se prima l'obiettivo del proprio subconscio era quello di fargli aprire gli occhi e renderlo partecipe di cosa stracazzo stesse provando, adesso che ci era riuscito lo rendeva di fatto ... cosa, nello specifico? Disoccupato? Un subconscio poteva anche avere un lavoro vero? O si trattava in realtà della voce pensiero che lo infestava da una vita, che lo derideva quando compiva qualche stupidaggine, che lo spingeva a volte a combinare guai che avrebbero portato inevitabilmente ad altri casini stile effetto domino e che corrispondeva in modo molto infido a quella di Osamu?

Sinceramente non voleva nemmeno scoprirlo. In quel momento meno che mai.

Il problema era che, dopo aver maledetto le sue esperienze notturne disneyane in almeno sei lingue diverse e con una fantasia che non credeva di possedere, adesso sentiva quel sogno come un aggancio ad una realtà che non riconosceva più e che, mancando, lo aveva lasciato a cadere nel vuoto più profondo. E andava giù, sempre più giù, togliendogli ogni appiglio e abbandonandolo del tutto.

Perché c'erano dei punti che non riusciva a comprendere pienamente.

Primo tra tutti, la confessione di Sakusa.

Si riteneva ancora un fallito per non aver reagito affatto, per non aver spiccicato nemmeno mezza parola ed averlo lasciato libero di andarsene senza sputargli in faccia la portata delle considerazioni che aveva creato con i suoi gesti, con le parole dette e non dette, con quegli sguardi pieni di qualcosa che vedeva solo in quel momento, abbandonandolo a crogiolare in quell'ovatta di sensazioni calde che gli faceva provare e quei fastidi unici che solo lui riusciva a creare.

Ma le cose ormai erano andate in quel modo.

Fantasticare sullo stuzzicare sapientemente Samu per farsi picchiare e tentare di espiare così le colpe che gli invadevano il cervello non era un buon sistema per affrontare la questione.

Aveva bisogno di essere nel pieno dello stato fisico e delle forze per la partita contro i Raijin: non poteva regalare altre carte vincenti a Suna e alla sua malefica personalità. Atsumu si sentiva già l'equivalente di una tartaruga con la pancia all'aria che non riusciva a raddrizzarsi, altre cartucce le avrebbe risparmiate per un dramma pubblico/privato differente, quello che sarebbe arrivato prima.

Inoltre, farsi pestare sarebbe stato un orrendo biglietto da visita per i ragazzini del reparto pediatrico. Non si sarebbe voluto avvicinare nessuno se avesse avuto un occhio nero, un labbro spaccato e cerotti in faccia, figurarsi dei bambini impressionabili.

Men che meno Sakusa, che nella più rosea delle ipotesi lo avrebbe innaffiato di disinfettante e gli avrebbe lanciato acqua ossigenata da lontano.

La cosa lo avrebbe infastidito enormemente.

Non Sakusa che lo spruzzava di igienizzante a debita distanza, ma la possibilità mancata di potergli stare vicino, di poter risolvere.

Quello era il motivo più importante di tutti.

Once Upon A TimeWhere stories live. Discover now