Vecchie abitudini

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Severus Piton era al Ministero della Magia, si guardava attorno alla ricerca di una persona ben precisa.

Ignorava le occhiate di tutti i presenti che gli passavano accanto, ignorava i sussurri e le dita puntate nella sua direzione, ignorava, perfino, i quadri di Ministri e maghi famosi che cercavano di guardarlo oltre la propria cornice.

Erano passati quasi otto anni dalla fine della guerra, anni in cui aveva cercato di riprendere in mano la sua vita o quello che ne restava. Aveva ripreso il ruolo di Preside e, questa volta, non era un compito che gli pesava sulla coscienza. Sapeva di meritalo, poteva uscire alla luce del sole e camminare a testa alta senza sentirsi a disagio, senza vedere le sue mani sporche di sangue innocente.

Ovviamente il vecchio Severus era sempre in agguato ed era pronto ad uscire in ogni momento di apparente serenità.

Sapeva di essersi macchiato di crimini orrendi; di notte gli incubi tornavano a tormentarlo, fortunatamente non con la frequenza di prima.

Poteva definirsi un uomo nuovo, ma comunque legato a quello che era prima. Non che potesse dimenticare quello che era stato.

Alcune etichette sono difficili da levare, altre sono così incollate alla propria anima che, ormai, era impossibile togliersele.

Il mago mise una mano nella tasca dei pantaloni neri e prese un vecchio orologio da taschino appartenuto a suo padre, una – se non l'unica – cosa buona che aveva ereditato da lui.

Lesse velocemente l'ora sul quadrante leggermente graffiato in un paio di punti e masticò una silenziosa imprecazione: la persona che stava aspettando era in ritardo. Come ogni singola volta.

Era un atteggiamento che lo infastidiva a morte.

L'irritante assistente che seguiva quella persona non lo lasciava entrare nel suo ufficio dicendo che aveva l'ordine di non fare entrare nessuno in assenza della signorina Kent.

Aveva cercato di spaventarla come quando era un'insignificante Corvonero dietro un banco o un calderone con una pozione decisamente sbagliata che bolliva male, ma la sua famosa occhiata non funzionava più come un tempo.

Ovviamente con la sua miracolosa sopravvivenza avvenuta grazie ad un repentino, e per nulla richiesto, intervento di Fanny e con Potter che parlava al suo posto nel periodo in cui la gola non poteva sopportare un discorso senza che le ferite si riaprissero; non solo doveva sopportare occhiate e dita puntate, ma la sua reputazione di bastardo dall'animo nero e solitario era andata a farsi benedire. Il tutto sotto le risate sguaiate del ritratto di Albus che gli diceva che tutto quell'affetto non poteva che fargli bene.

Lui era convinto che tutto quell'affetto fosse peggio di una Maledizione Crociatus.

Così le sue famose occhiate non bastavano più per incutere un certo timore, venivano viste come una maschera che nascondevano un animo puro e un buon cuore colmo di sentimenti; le frecciatine sarcastiche erano prese come battute rendendo la sua vita da eroe miracolato un inferno in terra.

Ma c'erano anche risvolti positivi in quella vita completamente inaspettata.

Poteva finalmente sentirsi libero di amare, anche in quegli anni nessuna donna sana di mente abbia mai dimostrato interesse nei suoi confronti. Lui e Minerva avevano chiarito ogni equivoco, avevano parlato per ore, avevano pianto insieme, lei lo chiamava ancora figliolo. Era bello avere di nuovo la sua stima e il suo appoggio, due cose che gli erano mancate più di quanto osasse ammettere durante il lungo anno in cui era stato Preside contro la sua volontà.

Aveva riallacciato vecchi rapporti di amicizia con maghi che credeva morti in battaglia o scappati per paura di morire in battaglia.

Una di queste era Patricia Kent.

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