10. Un'amica è per sempre?

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Mi nascondo con lentezza dietro il muro e sporgo la testa oltre la porta, quanto basta per dare una sbirciata all'interno dell'aula.
Le dita bagnate scivolano sulla superficie scheggiata dello stipite, per poi avvinghiarsi tutto un tratto come se mi trovassi su una balaustra pericolante, le gambe che traballano ancora.
Mi sento così debole.

La lezione di Doris procede al termine; si nota dalle spalle incurvate delle ragazze sedute nei primi banchi e dall'aria annoiata di Savannah che, rigirandosi tra le mani un pennino, socchiude le palpebre a singhiozzo.
Una delle più piccole sta ripetendo l'ordine delle fasi lunari con tono solenne, ma non presto particolare attenzione; la testa mi turbina in una tempesta di immagini vomitevoli e odori soffocanti.
In più, se mi concentro troppo su qualcosa, rischio di aggravare le fitte che martellano sulle tempie, come se volessero scavarmi un buco dentro al cervello.

Ho tanto freddo. Il mantello non è servito a ripararmi dalla forte pioggia e dalle maniche le piccole sfere d'acqua sgocciolano repentine, infrangendosi sul pavimento come una mela calpestata, in mezzo alle mie stesse impronte.
Mi ci vorrebbe un bel bagno caldo, ma non ho le forze di tornare là fuori per recuperare due secchi dal pozzo. Forse ce ne sono un paio in cucina, ma saranno sicuramente destinati ai pasti.

«Ben fatto Lavinia, riprenderemo dopo. Ora andate, tra poco sarà servita la zuppa.»
Come immaginavo: i secchi sono già stati usati.

Tutte assieme e in fila ordinata escono dall'aula, evitando il mio corpo floscio e ingombrante con piccoli saltelli improvvisi ed espressioni infastidite.
Devo avere davvero una brutta cera.
Solo Savannah mi scruta con più criterio, con quei suoi occhi svegli e indagatori, lasciandosi sfuggire un commento pacato prima di seguire la processione.
«Sembra tu abbia visto un fantasma.»

Deglutisco, cercando di lavare via il sapore acido che mi impasta la bocca.
In un altro momento le avrei detto di farsi gli affari suoi, correndo il rischio di ritrovarmi qualche strano scherzo nel piatto o nel letto.
Adesso devo conservare le energie per gli ultimi ostacoli della giornata.
Appoggio la schiena sulla cornice della porta, osservando le ultime gonne scomparire nella sala da pranzo.

«Aveline.» Doris si avvicina con le mani congiunte dietro la schiena. «Cosa ci fai a casa? Il tuo turno non è ancora finito o sbaglio?»

Volgo la testa verso l'alto, socchiudendo le palpebre per brevi attimi, aspettando che il dolore alla testa si attenui.
«Doris, perché qualcuno dovrebbe volere il liquido contenuto nell'occhio di un animale morto?» chiedo poi, tutto d'un fiato, con gli occhi che si posano lenti sulla sua figura e poi sui banchi.
«Di un animale magico, morto» mi correggo.
Parlare mi è costato uno sforzo immane, l'aria mi ha grattato il fondo della lingua come se avessi dei ceppi ardenti al posto delle papille gustative.

«Aveline, che cosa hai fatto?» sgrana le palpebre, la mano che preme sul cuore sfiorando il colletto nero con la punta delle dita.

È davvero la prima domanda che le è venuta in mente? Cosa crede, che me vada in giro spensierata per il bosco a squartare creature magiche?

«Non ho fatto niente.» Non volutamente almeno. «Potresti, per cortesia, rispondere alla domanda?» replico, stringendo i denti.

«Le creature magiche hanno un sangue vitale per la sopravvivenza dei Cacciatori nel Cerchio, non so altro.» Il mento grasso scatta in mia direzione. «Posso sapere, per cortesia, perché me lo stai chiedendo?» Mi imita, fiera di utilizzare le stesse tattiche di falsa gentilezza per ottenere quello che voglio. In fondo, è stata lei a insegnarmelo.

Pianto lo sguardo verso l'altro lato della porta, su quel cardine arrugginito che la fa cigolare ogni volta.
«Fog e Smunk sono venuti alla bottega e mi hanno chiesto di sezionare quelli del caprone, quello del rituale» rivelo, spostando il peso sul piede destro e appoggiandovi il tallone dell'altro sul dorso.

Come il ventoWhere stories live. Discover now