Capitolo I

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Dettagli. Come definirli? Fatti secondari, ma non trascurabili.
Spesso sono quelli che fanno la differenza, quindi direi che non sono affatto trascurabili, anzi. Hanno il loro valore, sono importanti... ma solo per chi è in grado di cogliere le piccole sfumature nascoste dietro frasi o gesti, non a tutti una particolare situazione appare subito chiara e definita in ogni sua sfaccettatura.

Ci sono persone più sensibili – io appartengo proprio a questa categoria – che prestano più attenzione a quello che le circonda, notano anche le cose apparentemente più banali, che poi si rivelano magari determinanti nell'analisi di una situazione. Il resto delle persone, invece, non ritiene fondamentale l'indagine di così tante piccole cose, personalmente credo proprio che queste siano le persone che conducono un'esistenza più spensierata, più libera da macchinazioni mentali. Perché, in fondo, a cosa serve veramente concentrare così tante energie in qualcosa che è  irrilevante per la maggior parte delle persone?

Eppure non posso farci nulla, io sono sempre stata un'ottima osservatrice, da piccola ero più sensibile degli altri bimbi a scuola, meno loquace, più riflessiva e infinitamente più creativa. C'era una mia insegnante delle scuole primarie che ripeteva sempre le stesse parole ogni volta che aveva modo di confrontarsi con mia madre, mi definiva ipersensibile, e specificava che, sebbene questa caratteristica non avesse un'accezione negativa, avrebbe potuto ostacolarmi nella vita, impedendomi di affermarmi come avrei dovuto e soprattutto meritato.
Ho ripensato spesso a questa definizione e in effetti oggi, a venticinque anni, devo dire che mi si addice completamente.

Se da un lato sono consapevole di essere una persona molto attenta, infatti, so anche di non essere una persona in grado di affermarsi, che si tratti di assumere un ruolo importante sul lavoro, di prendere una decisione determinante o anche solo di far valere la mia idea durante una discussione, io tendo sempre a chiudermi al confronto, a sfuggirlo, per paura che il mio modo di pensare non sia giusto... come se ci fossero cose oggettivamente più giuste di altre! Già, perché razionalmente, nel profondo, so bene che questo mio modo di essere è sbagliato, deve essere modificato, eppure proprio non riesco a tirar fuori un minimo di coraggio per farmi valere e rispettare dagli altri, né per far notare che la mia fatica e il mio impegno in ambito lavorativo valgono qualcosa e sono meritevoli di una ricompensa.

Questo atteggiamento, nel tempo, sul lavoro ha spesso dato modo agli altri di prevaricami, di ignorarmi, a volte anche di sfruttare il fatto che io, nel tentativo di guadagnarmi la stima altrui – come se ce ne fosse realmente bisogno – tendo a rendermi troppo disponibile, spesso facendomi carico di compiti che normalmente non mi competono affatto.
Negli anni, inoltre, in risposta a questo atteggiamento così disponibile, non ho guadagnato null'altro che l'indifferenza delle persone, sempre tutte concentrate solo su se stesse, troppo piene di sé, tanto che anche un dialogo spesso si trasforma in un monologo in cui il mio interlocutore parla ininterrottamente di sé, usandomi come spugna su cui riversare tutti i suoi fatti personali e le frustrazioni.

A farmi sentire ancora più avvilita è il fatto che ultimamente le mie doti di ottima osservatrice non hanno funzionato, qualche dettaglio deve essermi sfuggito, forse ho abbassato la guardia proprio da quando è incominciata la mia nuova avventura lavorativa alla  J&K Enterprise, l'azienda in cui lavoro da appena un mese.
Ricordo ancora l'agitazione che mi prese il giorno in cui ho ricevuto la telefonata che mi avrebbe cambiato la vita. "È assunta," diceva una voce dall'altra parte del telefono, mentre con tono entusiasta mi spiegava che avevo superato una durissima selezione e che ero stata scelta fra oltre venti designer per entrare a far parte di un nuovissimo progetto che sarebbe stato lanciato di lì a poco dall'azienda in cui stavo per iniziare a lavorare, a Milano, la mia città di origine.
Io nel frattempo vivevo a Roma e lavoravo in un piccolo atelier di abbigliamento, un posto esclusivo in cui ricche signore venivano a farsi confezionare abiti su misura. Sebbene fosse il meglio che riuscii a trovare dopo aver terminato i miei studi, non era quello il mio sogno. Avrei voluto progettare capi di abbigliamento, ma non mi lamentavo, poiché nei tre anni in cui avevo fatto quell'esperienza ero riuscita a guadagnarmi la piena fiducia della titolare e delle altre due ragazze che lavoravano lì, traguardo alquanto difficile per una persona insicura e incapace ad affermarsi come me.

Non lasciarmi andare viaWhere stories live. Discover now