Capitolo 8

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Tre giorni dopo...

Mi sono svegliata presto questa mattina, come le ultime tre in effetti, sono giorni che non dormo bene. Oggi ci sono delle nuvole in alto nel cielo, quelle nuvole che in genere minacciano pioggia, ma poi non piove realmente, e che mi fanno svegliare con un mal di testa opprimente. Scendo dal letto con una lentezza da bradipo, mi lavo e mi vesto. Poiché avevo portato pochi vestiti con me, ieri mio padre mi ha portata nella vecchia stanza di mia madre per scegliere alcuni capi dal suo vecchio armadio. È stato bellissimo poterli toccare e annusare... odoravano di chiuso, naturalmente, ma anche di lavanda e rosa, il suo profumo.

Per oggi scelgo una camicia bianca con dei fiorellini ricamati a mano, arrotolando le maniche fino ai gomiti, e dei pantaloni neri a vita alta. Ai piedi delle ballerine bianche prese sempre dalla stanza di mia madre, a quanto pare aveva la mia stessa taglia. Lego i capelli in una coda alta e mi liscio i vestiti allo specchio. Sembro un po' formale, ma mi piaccio, ed è difficile che capiti, quindi non mi soffermo neanche troppo e vado a fare colazione.

In sala trovo sempre mio padre e, dopo di me, arriva Sara con la mia spremuta e una fetta di crostata ai mirtilli.

«Buongiorno, cara» mi dice con dolcezza, prima di rivolgersi a mio padre con un tono di voce più concitato. «Signor Edoardo, è arrivato un gruppo di persone da uno dei villaggi del Nord. La Strega Nera lo ha raso al suolo e i pochi abitanti sopravvissuti sono riusciti ad arrivare fin qui con le poche cose che avevano.»

Sgrano gli occhi, mentre papà si massaggia le tempie, sospirando. «Vengo con te, Sara.»

D'istinto li seguo e scopro una trentina di persone stipate tra la cucina e il cortile esterno a questa. Sono persone di diversa età, ci sono alcuni bambini che mangiano delle ciambelle come se niente fosse successo, anziani seduti sulle sedie con aria sconsolata e affranta, un nucleo di donne con le lacrime agli occhi e il volto distrutto dal dolore. L'aria è pregna di tensione e sofferenza e all'improvviso vengo sbalzata fuori dalla bolla di paradiso dove avevo vissuto fino a pochi minuti fa, non rendendomi conto della gravità della situazione.

Tutto questo è colpa di mia zia?

Come posso avere del sangue in comune con una persona capace di fare ciò?

Nessuno mi aveva detto che sarebbe stata capace di... questo. Deglutisco e cerco di ricacciare indietro le lacrime che mi affiorano agli occhi nell'osservare la scena.

«Miei cari», esordisce mio padre con voce ferma, «siete i benvenuti qui al Rifugio. Vi faremo avere delle stanze e poi cercheremo una soluzione per il vostro futuro.»

Dal cortile entrano due ragazze che parlano tra di loro a bassa voce e, subito dopo, un ragazzo dai capelli corti color dell'oro e due occhi blu come il cielo limpido. È muscoloso e più alto di me di due spanne almeno. Non un filo di barba, un abbigliamento semplice e le mani infilate nelle tasche dei pantaloni. A prima occhiata sembrerebbe un angelo. E basta un attimo che si volti verso di me, rivolgendomi un sorrisetto a mezza bocca. Ricambio gentilmente e, per un attimo, il magone che avevo poco prima sembra scomparso, anche se tutta questa gente è ancora qui.

Mio padre e Sara cominciano ad organizzare le stanze e i compiti da assegnare ai nuovi arrivati, io invece mi defilo fuori, verso il giardino. I miei passi lenti scricchiolano sul brecciolino che mi conduce alla fontana, ho le braccia conserte e penso a quante cose ancora non so, a quanto mi sono sentita stupida, prima, in cucina. Ho vissuto questi ultimi tempi con ingenuità e superficialità, mi sono sentita come Harry Potter al suo primo arrivo a Hogwarts, con quella meraviglia negli occhi nel vedere la magia e la novità, ma questo non è un libro o un film, è la vita vera, la fottuta realtà.

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