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Seguo Naria. Saliamo insieme le scale, ma mi sento come se stessi scalando una montagna. I gradini mi arrivano alle ginocchia. Sotto i nostri piedi, c'è il sottoscala.

Attraversiamo insieme il corridoio silenzioso e poco illuminato che serpeggia al piano superiore. Qui le pareti sono tappezzate da foto.

Mi chiedo perché i giganti continuino a produrre carta stampata. Non dovrebbero salvaguardare la natura o qualcosa del genere? Perché non usano un monitor che scorre le immagini da solo e che magari si accende solo quando c'è qualcuno a guardarlo?

Le cornici racchiudono i sorrisi della mia famiglia e molte di esse mi mostrano momenti che ho perso: sono istantanee scattate durante le vacanze, vacanze in cui io non c'ero. Vedo immagini di spiagge, scogliere, antiche rovine in riva al mare, montagne innevate, foreste lussureggianti di sferifere.

Mai una volta che mi abbiano portato con loro! Mi hanno sempre lasciato da solo, chiuso nella scatola, a mangiare cibo conservato in buste sottovuoto.

La prima volta che partirono per le vacanze, che, a quanto ricordo, durarono una quindicina di giorni, non sapevo neppure dove mettere la spazzatura. Tutto puzzava da far schifo. Dopo una settimana, ero così tanto arrabbiato e disperato che svuotai l'armadio e lo riempii con lo sporco.

Lasciai tutti i vestiti sul pavimento fino al ritorno dei miei genitori, che poi mi misero in punizione. Dovetti riordinare il guardaroba devastato e non potei giocare con Toma e Naria per qualche giorno. Alla fine fu solo un altro intermezzo di solitudine.

Chissà se qualcuno porta gli umani in spiaggia con sé. Che profumo avrà la salsedine e come sarà sentire la sabbia sotto i piedi?

M'immagino disteso a prendere il sole in riva al mare e, sentendomi improvvisamente sollevato, non posso fare altro che pensarmi non più qui, ma piuttosto in quel posto davvero tanto lontano.

Sogno a occhi aperti le automobili con la musica a palla e le ragazze che vanno avanti e indietro libere sul bagnasciuga, vestite con camicie coloratissime e cappelli di paglia. Perso nella mia fantasia, ridacchio tra me e me, tanto che, al posto dello scricchiolio delle assi di legno del pavimento, sento le grida dei gabbiani.

Di ritorno da quello che fu il suo quarto viaggio, Naria mi regalò uno sputamusica con dentro una sola traccia, che s'intitolava Ricordi di una giornata al mare.

La prima volta lo ascoltammo insieme, stesi sul letto di camera sua. Era un afoso pomeriggio estivo, anche piuttosto noioso. Mi diceva: «Senti? Questi sono i gabbiani... e queste le onde del mare».

Ce l'avevo sempre in tasca e lo accendevo tutte le volte che rimanevo da solo. Un giorno l'ho perso da qualche parte. Mi piaceva molto, anche se avrei preferito avere anche una canzone tutta per me, da ascoltare quando mi pareva.

Passavo molto tempo a cercare di immergermi in quel mare lontano che sentivo solo attraverso i suoni e che vedevo solo attraverso le fotografie. Ogni volta finivo sempre per sentirmi ancora più isolato del normale. Forse è un bene che abbia perso lo sputamusica.

«Promettimi che non ti metterai a ridere», sussurra mia sorella

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«Promettimi che non ti metterai a ridere», sussurra mia sorella. Afferra la maniglia della porta di camera sua. Sembra piuttosto imbarazzata e ciò mi rende curioso.

«Te lo prometto.»

La porta si spalanca. La stanza è rischiarata dalla debole luce della lampada da tavolo blu, come sempre appoggiata sulla scrivania disordinata. Le tende sono tirate giù e gli scuri del finestrone sono chiusi. All'improvviso, mi sento come se fosse di nuovo notte. È strano.

Lunghi capelli biondi scendono sullo schienale della poltrona di Naria. Al centro della cameretta dalle pareti violette, seduta di spalle, c'è una ragazza umana con indosso un buffo e gonfio vestito celeste.

Sembra completamente ignara della nostra presenza. Si erge al centro della stanza. È un elemento fuori posto. È qualcosa che non dovrebbe stare lì dove sta adesso.

Certo. Zoe si sedeva sempre su quella poltrona. Anche quando la vidi per la prima volta, stava lì, ma la finestra era spalancata e i viluppi di una graziosa nebbiolina le serpeggiavano ai piedi, che battevano impazienti sul pavimento.

Non mi sta bene. Non so come, ma resto in silenzio... e l'unica cosa che riesco a fare è voltarmi a guardare l'espressione sorridente della mia padroncina, che mi fa un gesto con le mani come per dirmi di andare a salutare la nuova arrivata.

Da qui non riesco a vedere i suoi occhi e questo mi spaventa. Se sono chiusi, se sono aperti, io non lo so; io non vedo altro che la sua chioma.

Stringo i pugni. Faccio un passo verso la ragazza (uno soltanto). «Oh», gemo stizzito, «stai dormendo?»

Non risponde. La mia voce è come un soffio di vento: sottile e fa poco rumore.

Mi avventuro più avanti, ma resto ancora dietro di lei. «Mi chiamo Gap e vivo qui», dico con tono più deciso.

Niente. Forse è sorda? Che importa se non può sentirmi? Mi mordo il labbro. Più penso a Zoe, più mi arrabbio.

«Quello è il posto di Zoe. Alzati!»

Credo di aver alzato troppo la voce, sempre a patto che possa sentirmi o vedermi. In fin dei conti, non importa: Naria è appena dietro di me.

Infatti, mia sorella parte in difensiva: «Non essere troppo duro con lei».

«Ma chi è?» le chiedo sottovoce, mentre mantengo lo sguardo fisso sui quei surreali capelli biondi.

«Perché non lo scopri da solo?» ribatte.

Allungo un dito verso la manica a sbuffo del vestito celeste, giusto per non toccare le spalle scoperte con la mano fredda.

Ha strappato un pezzo di cielo e se lo è messo addosso – immagino. È una cosa violenta nella mia testa, non c'è niente di romantico.

Da parte sua non c'è nessuna reazione. Sorpreso e spaventato, tiro indietro la mano.

La ragazza crolla senza controllo sul pavimento, emettendo un tonfo sinistro, non appena mi allontano. I capelli si sparpagliano sulle mattonelle e, finalmente, riesco quasi a scorgere il suo viso.

Mi inginocchio accanto a lei e provo a sollevarla dal pavimento gelido. E se avesse battuto la testa? Se fosse morta? Le cingo i fianchi, mentre tremo per lʼagitazione, e, non appena la muovo, le ciocche dorate le scoprono il volto.

Ha gli occhi aperti, uno strano bagliore vitreo danza all'interno di essi. Sorride. Ha dei bei denti dritti e bianchi, forse troppo bianchi. Il naso e le labbra sono sottili e pallidi. La pelle è incredibilmente liscia e per nulla naturale.

«Tranquillo! Non può farsi male. Ti piace?» dice Naria. Le scappa un risolino. «Forse... non dovresti cercare di capire chi è, ma che cosʼè.»

Aggrotto le sopracciglia. «Che razza di scherzo è questo?»

«Non è uno scherzo», risponde. Si interrompe per un attimo, come se stesse riflettendo sulla situazione, e poi riprende a parlare: «In effetti, pensavo che sarebbe stato più divertente».

Non cʼè nessuna ragazza qui: questa è una bambola. La lascio cadere di nuovo sul pavimento duro. La testa si stacca dal collo, pesante come una zucca piena di semi.

Mi alzo in piedi e tutto diventa viola per un secondo. Intanto, sento il rumore della testa che rotola via e che va sbattere su una delle gambe della poltrona.

Sono triste e arrabbiato. Sento come un groppo alla gola, una pallina che non va più né in su, né giù. Allʼimprovviso, delle lacrime iniziano a rigarmi le guance. Senza farmi vedere piangere, vado verso la porta della stanza.

«Dove vai?» mi domanda Naria stupita.

«In cucina, a bere», le fo io con la voce un po' rotta.

E scappo via.

GapWhere stories live. Discover now