Londra, Bethal Green

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Spalancai gli occhi.
Quanto diamine di tempo avevo dormito?
Il mio braccio destro sgusciò rapidamente fuori dalla lenzuola in cerca del mio cellulare. Non avevo nemmeno la forza di spostare la testa per vedere dove si trovava.
Tastavo sul comodino di fianco al letto, ma le mie dita raccoglievano solo polvere.
Finalmente toccai qualcosa di lucido e freddo e riconobbi che si trattava dello schermo del cellulare.
Lo afferrai con uno scatto e lo accesi: i miei occhi vennero subito abbagliati con la luce della schermata principale, sulla quale era impresso l'orario.
7.55.
Maledizione.
Avevo ignorato la sveglia per tutte e cinque le volte in cui aveva suonato.
"Bravissimo, Nathan. Hai battuto il tuo record" mi complimentai nella mente.
Il treno che mi ero prefissato di prendere sarebbe passato dopo sette minuti esatti.
Balzai fuori dal letto come un grillo, con i piedi ancora impigliati nelle lenzuola.
Mi misi addosso una camicia e un paio di jeans senza nemmeno farmi una doccia prima.
Poi corsi in cucina con la camicia ancora sbottonata per bermi la tazzina di caffè freddo che avevo preprato la sera prima. E con "caffè freddo" intendo una tazzina con dentro un cubetto di ghiaccio che si sarebbe sciolto nottetempo.
Una parte di me aveva previsto che avrei fatto tardi, ma dentro di me speravo che non sarebbe andata così e che avrei avuto il tempo di prepararmi un caffè caldo con la moka.
Invece la mia preoccupazione si avverò e mi ritrovai a bere una brodaglia tiepida che definire "caffè freddo" sarebbe un insulto a chiunque abbia mai macinato un chicco di caffè in vita sua.
Eppure non avrei potuto fare a meno di berlo: la mia abitudine di assumere caffeina almeno tre volte al giorno era ormai insita nel mio organismo, e senza di essa mi sarei ritrovato a strisciare sul pavimento come un dromedario morente nel giro di pochi minuti.
Il mio cellulare iniziò a suonare appena dopo la bevuta.
Si trattava di mio fratello.
-Gio, non è un bel momento-.
-Ma come, Nat? Non sei in metro?-.
-No, io mi sono svegliato adesso! Ho la metro tra tre minuti!- esclamai irritato.
-Ma tanto le metro passano ogni due minuti, no? Se anche la perdessi...- provò a consolarmi.
-No, non posso perderla! Tutto il gruppo di nuovi studenti italiani come me salirà proprio su quella che passa tra poco. Ho bisogno di loro per sapere come orientarmi nel campus universitario e come raggiungerlo!-.
Giovanni sbuffò; -Ohh, potrei sconvolgerti con questa notizia, ma sai che al giorno d'oggi esiste un mezzo per orientarsi alla portata di tutti chiamato Google Maps?-.
Iniziai a zampettare per tutto l'appartamento nel tentativo di infilarmi le scarpe con la mano sinistra; con la destra, nel frattempo, rispondevo a mio fratello: -No, no! Tu non capisci! Ho bisogno di qualcuno che mi dica in quale ingresso devo entrare, quale classe raggiungere, insomma...quegli studenti italiani sono gli unici con cui posso confrontarmi. E se devo perdermi, preferisco non essere solo!-.
-Ma tu sai l'inglese, no? Puoi chiedere indicazioni a qualche passante, oppure puoi...-.
-Gio chiudi quella maledetta bocca!- esclamai improvvisamente.
Sebbene le sue argomentazioni non facessero una piega, io necessitavo di prendere quel treno.
Senza se e senza ma.
-Oh, d'accordo...- disse mio fratello, mogio.
-Senti, scusami, non volevo essere aggressivo. Ti richiamo più tardi, ok? Adesso devo correre, altrimenti perderò il treno-.
Chiusi la chiamata e mi precipitai fuori dal mio appartamento; scendevo le scale alla velocità di un bolide, abbottonandomi la camicia ad ogni gradino.
Le scarpe, invece, erano rimaste slacciate.
Raggiunsi l'uscita del mio palazzo, che grazie al Cielo si trovava proprio davanti alla metropolitana di Bethnal Green.
Il sole splendeva in cielo come in una giornata estiva nonostante fosse il mese di settembre. Stavo già iniziando a sudare per la folle corsa e per poco non inciampai scendendo le scale della metropolitana.
Comunque tutto questo fu inutile perchè il mio treno sfrecciò davanti ai miei occhi, sparendo nell'uscurità del Tube.
In quel momento mi immobilizzai come una scultura di ghiaccio.
Ero rimasto solo.
Quella chiamata con mio fratello, per quanto sembrasse inopportuna, mi aveva dato una speranza: stavo parlando con una persona familiare e per pochi secondi mi ero sentito a casa.
Ma adesso ero solo.
Nel tunnel sotterraneo mi trovavo solo io e nessun altro.
Nel silenzio.
Non era una sensazione nuova per me, almeno non da quando mi ero trasferito a Londra per iniziare a studiare.
Eppure questa volta era diverso: non era una solitudine malinconica, ma frustrante. Molto frustrante.
Un bagliore di rabbia si accese improvvisamente dentro al mio petto: dannazione! Il mio primo giorno di università era stato rovinato!
E tutto per colpa mia.
Inziai a sbattere i piedi sul pavimento come uno squilibrato, lanciando una serie di imprecazioni di cui mi vergogno.
Non lo avrei mai fatto in presenza di altra gente, ma ora ero solo.
Solo. Solo. Solo.
In quel momento se mi fossi trovato davanti a me stesso mi sarei riempito di botte. Lo avrei fatto davvero volentieri.
La brezza gelida della metropolitana penetrò improvvisamente attraverso la camicia e si immerse nelle mie ossa. Questa sensazione bloccò di colpo il mio sfogo.
Dovevo darmi una calmata, altrimenti nulla sarebbe andato per il verso giusto.
Sentivo il cervello pulsarmi nel cranio, probabilmente a causa della stanchezza e dello stress.
Chiusi gli occhi per qualche secondo. Dovevo staccare la spina in attesa del prossimo treno. Dovevo pensare ad altro.
Così ricordai della tragedia per cui era nota la stazione di Bethnal Green; me l'aveva raccontata mio padre qualche giorno prima, mentre mi stava accompagnando nella mia nuova casa.
Lo stimolo per iniziare il racconto fu il cartello rotondo dell'underground.
La stazione di Bethnal Green veniva utilizzata come rifugio antiaereo durante la Seconda Guerra Mondiale; la sera del primo marzo 1943 venne lanciato un razzo antiaereo che esplose causando gran panico nei londinesi, che lo scambiarono per un bombardamento da parte dei nazisti. Così un gran numero di persone si ammassò all'interno del rifugio di Benthal Green; a quel punto, una donna inciampò sulle scale e questo evento causò un tremendo effetto domino a seguito del quale rimasero schiacciate più di trecento persone.
Nella mia mente evocai l'immagine di quel disastro; immaginai le urla, i lamenti...
E poi mi sembrò quasi di sentirla con le mie orecchie... una donna che gemeva e che si lamentava...
Riaprii gli occhi.
Non era decisamente un buon esercizio per calmarsi: il mio cuore aveva iniziato a battere forte per l'inquietudine.
Eppure quel lamento proseguiva incessante: non poteva essere la mia immaginazione.
Mi guardai intorno, come se fossi stato in cerca di un fantasma.
Avevo ricominciato a sudare, ma questa volta non era per il caldo: avevo avvertito la presenza di qualcosa di tremendamente pericoloso.
Esistono diverse strategie di difesa che gli animali adottano in caso di minaccia, e la mia preferita era immobilizzarmi. Non lo dico perchè effettivamente la ritenessi efficace, piuttosto perchè era la prima e unica cosa che riuscivo a fare in momenti di terrore.
E adesso i miei muscoli si erano completamente irrigiditi; pregavo che il treno arrivasse il prima possibile per interrompere quell'incubo.
I gemiti e le lamentele continuavano a  squarciare delicatamente il silenzio.
Finalmente trovai il coraggio di spostare la testa, abbastanza per scorgere due figure nell'estremità opposta del tunnel: una giovane donna appoggiata al muro e un uomo vestito completamente di nero.
L'uomo stava sussurrando parole feroci alla donna, ma io non riuscivo a sentirle; potevo tuttavia intuire le sue intenzioni dalla pistola che teneva saldamente in mano.
Nessuno dei due si era accorto della mia presenza.
In quel momento avrei semplicemente voluto sparire e tornare nel mio appartamento, dimenticando tutto ciò che avevo visto; nessuno lo avrebbe mai saputo.
Una parte di me, tuttavia, era consapevole di poter fermare quell'uomo.
E desiderava di farlo.
La situazione era troppo pericolosa per permettermi di ragionare con calma, ma la mia scelta avrebbe avrebbe avuto conseguenze decisive per la mia vita.
Quindi non potevo permettermi di sbagliare.
Alcune persone dicono che il futuro è un libro bianco: siamo noi a scrivere ogni pagina, e in qualche modo siamo sempre noi a decidere quando smettere di farlo, lasciando che sia qualcun altro a tessere la tela al posto nostro.
Io non avevo mai creduto a questa diceria fino a quel momento.
Perchè la mia scelta avrebbe cambiato tutto.

Eros: Il Progetto della LuceWhere stories live. Discover now