PARADISO I - La Nuova Casa

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Il violento sussurro proseguiva perpetrando nel silenzio un'aggiacciante aroma di terrore. Non c'era nessuna spiegazione che potesse giustificare il comportamento di quell'uomo, o che come minimo gli concedesse il beneficio del dubbio. All'inquietante voce maschile se ne aggiungeva un'altra, all'apparenza molto più dolce e innocua: un pianto spaventato, alimentato da singhiozzi e preghiere. Ascoltando i lamenti della donna, sentivo nascere dentro di me un sentimento molto più forte della paura: un bagliore di ira scaturì nel mio petto come un'imponente fiaccola. Io ero l'unica persona che avrebbe potuto fermare qualsiasi cosa stesse accadendo in quel momento, e non potevo non cogliere quell'occasione per agire.
Così afferrai con cautela il cellulare che avevo in tasca: avrei chiamato la polizia in quel momento esatto.
Ma l'uomo si accorse della mia presenza, e si girò a guardarmi.
A quel punto, capii che non avevo scelta: iniziai a correre disperatamente verso la loro direzione, ed esordii con l'unica frase che mi veniva in mente: -What's going on here?!-; avevo urlato, con la voce indebolita dalla paura, ma animata da una forte convinzione. L'uomo abbandonò immediatamente la presa sulla sua vittima e volse il capo verso di me: una folta barba occupava il mio mento, e metteva risalto ai suoi feroci occhi verdi; non sembrava affatto spaventato dalla mia presenza, come se sottovalutasse completamente il potenziale rischio che rappresentavo. Senza undugio estrasse una pistola nera munita di silenziatore dalla tasca. Quando il mio sguardo inquadrò l'arma, la mia mente mise in atto un meccanismo misterioso, quasi istintivo: mi lanciai verso il predatore, agganciando le mie mani alla pistola. L'uomo però aveva una presa solida e forte, e sollevò il proprio braccio con uno scatto fulmineo, portandomi con sè: a quel punto persi completamente l'equilibrio e caddi sui binari del treno. La donna urlò spaventata e cominciò a correre verso la porta per fuggire, ma l'attenzione del suo aggressore non era più volta verso di lei: il suo sguardo aggressivo era puntato unicamente su di me, che nel frattempo mi ero rialzato. Il mio cuore batteva come un tamburo, quasi scoppiandomi nel petto, e la mia faccia era tinta di un acceso rosso rubino. I miei occhi ramati incrociarono quelli verdi del pradatore, da cui non sembrava raffiorare la minima pietà, e poi si spostarono qualche centimentro più in basso, notando che il mirino del silenziatore puntava esattamente verso di mi.
Clic.
Un colpo soffocato accese la pistola per un istante.
Sobbalzai, come colpito da un fulmine sul fianco: quasi non provai dolore. La mia testa si inclinò verso i binari, accompagnado il resto del corpo con me.
Avvertii il fischio assordante che annunciava l'arrivo del treno.
La consapevolezza di ciò che stava succedendo appariva nitida nella mia mente, come un ostacolo troppo alto per essere superato.
Vidi un gruppo di persone entrare nella stazione, allertate dal suono dello sparo. Poi sentii  i binari vibrare come strumenti a percussione.
L'ultimo concerto della mia vita.
Quel treno non mi avrebbe mai portato all'università.
Una botta.
E nulla.








PARADISO I  - LA NUOVA CASA

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Complimenti! ;)
Abbiamo delle ottime notizie per te, adorato figlio di Egli!
Hai condotto una vita devota e buona, ed è tuo merito l'accesso al Paradiso! :D
Pernotterai al Piano 1, classe beati semplici, Comfort Zone!
Per qualsiasi dubbio, rivolgersi al Centro Assistenza chiamando il 333!
La tua casa è in caricamento...

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BENVENUTO!
-OOOHHHHG!-. Sobbalzai, inalando quanto più ossigeno possibile. Nel giro di qualche secondo, i miei polmoni si riempirono e ricominciai a respirare regolarmente. Avevo l'impressione di essere rimasto in uno stato di apnea per almeno dieci minuti, e la sensazione di soffocamento mi aveva quasi fatto vomitare.
Mi trovavo nel letto di casa mia, a Milano. Un timido raggio di luce solare raggiungeva la finestra della mia camera, in un quieto silenzio mattutino.
Io giacevo avvolto nelle mie lenzuola, ancora in preda ad una forte sensazione nauseabonda.
La situazione iniziò a peggiorare quando un inquietante flusso di memoria mi ricordò cosa era avvenuto un attimo prima.
Ero morto.
Era tutto finito.
Quella non era casa mia, non poteva esserlo. Quelle scritte al neon, apparse nella sua mente chiare e luminose, non sembravano nemmeno lontanamente frutto di uno strano sogno.
Mi precipitai immediatamente fuori dal letto, incapace di credere ai miei occhi: la mia camera era esattamente come l'avevo lasciata prima di partire, i miei libri perfettamente ordinati sugli scaffali, i miei peluche sulla stessa mensola. Non indossavo gli stessi abiti di quella mattina a Londra: adesso portavo una maglietta a maniche corte bianca e dei soffici e sottili pantaloni lunghi dello stesso colore, abbinati a dei calzini grigi. Come un bambino impaziente di trovare i suoi regali di natale in salotto, spalancai la porta di camera mia e mi precipitai giù dalle scale: -Mamma! Papà!-.
Nessuna risposta.
-Aurora! Gio!-.
Il salotto era perfettamente ordinato; la tavola imbandita e apparecchiata ospitava un piatto di pancake, un cesto di frutta esotica ed una tazza di latte.
Tuttavia ero troppo confuso e spaventato per trovare appetito, e l'unica cosa che cercavo era una risposta a tutte le mie domande. Quel luogo mi ricordava molto la mia villetta, ma non potevo trovarmi lì: era assurdo, impossibile... mi ero trasferito a Londra, ed mi ero ricevuto uno sparo nel petto provando a salvare una donna. Non c'era assolutamente niente che potesse giustificare la mia presenza lì, se non il fatto di essere davvero in Paradiso. Improvvisamente, un bagliore di entusiasmo si accese in me: avevo lasciato ciò a cui tenevo più di tutto, la mia casa, la mia famiglia, la mia vita...ma adesso mi trovavo nel luogo della felicità eterna! Non avevo idea di cosa avrei trovato, ma non vedevo l'ora di scoprirlo: mi catapultai davanti alla porta di casa mia e la spalancai con tutte le mie forze: davanti a me si presentò uno scenario insolito. Voglio dire: mi aspettavo che fuori da casa mia avrei trovato qualcosa di diverso dal mio quartiere, ma non credevo che sarebbe stato uno scenario così semplice: era un villaggio composto da una serie di villette tutte colorate in modo diverso. Sembrava di trovarsi in una fiaba, con il sole che splendeva e un prato fiorito che delineava un sentiero tra le case. Ad esser sincero ammetto che mi aspettassi di avvistare subito qualche angelo dalle ali piumate, tuttavia di fronte a me vedevo solo una vecchietta intenta ad innaffiare la siepe del suo giardino: anche lei indossava una maglietta e dei pantaloni bianchi, quindi dedussi subito che doveva essere una beata come me.
-Hey, sei tu il nuovo vicino?- chiese la signora guardandomi.
-Io...non lo so....mi scusi, potrebbe spiegarmi dove mi trovo?- le domandai io, balbettando confuso. La donna alle mie parole assunse un'espressione impietosita, e accennò un sorriso affentuoso: -Oh, caro ragazzo... poverino, perdonami, è stato scortese da parte mia non darti una spiegazione. Vedi, non sono abituata, di solito chi viene qui ha già capito dove si trova... ma tu, sei così giovane... poverino, dev'essere stata una tragedia...-.
La interruppi subito:-No, no, non si preoccupi signora; io ho già capito di...voglio dire... ho già capito di essere...morto- le mie parole vennero interrotte da un nodo alla gola, e sentii i miei occhi gonfiarsi di lacrime.
-Ohhh, tesoro...no...-; la signora mi si avvicinò e avvolse le sue calde braccia al mio petto.
-Vieni, accomodati a casa mia, ti dirò tutto quello che desideri-.
Il suo salotto era piccolo e accogliente, riempito con eleganti mobili intagliati in legno. Un orologio a pendolo ticchettava delicatamente, ma le sue lancette rimanevano immobili.
Io ero seduto sul divano, con le braccia strette al cuore e la testa china; singhiozzavo come un bambino.
-Tesoro, vuoi una tazza di tè?- mi chiese la signora.
-No... grazie- le rispose senza guardarla. Di solito mi trattengo sempre dal piangere in pubblico, ma quella volta sentivo che potevo farlo, d'altra parte perché avrei dovuto cercare di sembrare forte? Non ero più vivo, e mi trovavo di fronte ad una persona dolce e accogliente, che voleva solo essermi d'aiuto.
Improvvisamente decisi di farmi forza e sollevai la mia testa: adesso fissavo la signora dritta negli occhi, il mio volto ancora rigato da lacrime:
-Chi è Dio?-.
L'anziana donna rimase perplessa, e per qualche secondo non disse nulla.
-Ragazzo, Dio è Dio, che domanda è? Vuoi forse vederlo?-.
-Sì-.
-Oh, vedi, noi non possiamo. Siamo beati semplici, e la nostra vita è qui, in questo villaggio. Egli abita in alto, davvero in alto, troppo in alto per noi. Ma va bene così. Lui ha scelto per noi questo posto, e non possiamo desiderare di meglio, non credi?-.
Rimasi insoddisfatto della sua risposta, ma non dissi nulla.
-Come ti chiami?- mi chiese subito dopo.
-Nathan-.
-Piacere, Nathan. Io sono Agnes, ma tu puoi chiamarmi nonna se vuoi. Non ci sono molti giovani della tua età da queste parti-. La sua proposta venne accompagnata da un sorriso. Io non avevo idea di come risponderle: rimasi per qualche secondo di nuovo con la testa china, poi mi girai verso l'orologio.
-Che ore sono?-.
-Qui il tempo non passa, tesoro. Per essere più precisi passa, ma è sempre mattina, e noi non invecchiamo, quindi è come se non ci fosse-.
Cominciavo a capire come funzionava quello strano mondo, ma mi sembrava tutto ancora abbastanza assurdo.
-Devi essere molto agitato, figliolo. Se vuoi ti accompagno a casa, puoi farti un riposino e poi ci rivediamo al tuo risveglio. Io non mi muovo da qui. Ah ah ah-.
-La ringrazio... di tutto. Vado da solo, non si preoccupi-.
Con la mano provai ad asciugarmi gli occhi e a ragionare a mente lucida: avevo davvero bisogno di dormire, di schiarirmi le idee, di riordinare la mia nuova vita. Con un balzo mi alzai e mi avvicinai alla porta d'ingresso.
-Arrivederci, Agnes-.
-Dammi del tu, tesoro. Ah ah ah-.
Agnes mi aprì la porta e mi fece strada verso il sentiero fiorito: sentivo l'erba sfregarsi sui miei calzini ad ogni passo, dandomi una sensazione di sollievo. Casa mia era davanti ai miei occhi, ma ecco che vidi qualcosa che mi impietrì completamente.
Non riuscivo a credere ai miei occhi: il mio cane, un bellissimo bassotto a pelo raso, era proprio lì in giardino, ad aspettarmi pazientemente.
-Jesse!-.
Appena mi vide, le sue pupille si illuminarono come lampade; il cagnolino mi raggiunse correndo e abbiando entusiasta, e io lo accolsi tra le mie braccia chiandomi nel prato.
-Jesse, fratello mio! Sei rimasto qui, ad aspettarmi per più di dieci anni! Mi dispiace così tanto, piccolo-.
Mi accorsi di avere ancora gli occhi bagnati e gonfi, ma con lui mi sentivo al sicuro più che con qualsiasi altro. Avrei voluto risentire sulle mie mani il pelo di quel cane fin da quando ero un bambino.
A ripensarci, credo che lui sia l'unico rimpianto che mi è rimasto.
Mi sembrava una situazione assurda: ero sdraiato sul letto con Jesse insieme a me sul materasso. Non potevo credere che sarebbe successo di nuovo.
Mi spogliai avvolgendomi tra le coperte, cullato dal respiro profondo di Jesse che sonnecchiava. Stranamente, mi ci vollero davvero pochi secondi per addormentarmi.
Ho sempre trovato il sonno un mezzo utile per viaggiare nella mia mente, per esplorare zone che da sveglio difficilmente raggiungo: quando sogno percepisco l'intensità dei miei desideri come non mai, e allo stesso modo il potere delle mie paure. Per questo adoro sognare anche se, nella maggior parte dei casi, al mio risveglio non ricordo nulla.
Riconosco di star vivendo una situazione di stress quando, a distanza di qualche secondo dal risveglio, ricordo a che punto ero rimasto della mia vita e inzio ad avvertirne il peso come un macigno sul petto.
Quella volta, in effetti, quando riaprii gli occhi, provai quella sensazione. Non ne capivo il motivo, ma sentivo i miei organi contrarsi ferocemente nella gabbia toracica. A fatica mi sollevai dal letto, e mi diressi ancora scalzo verso il bagno. Con le palpebre ancora pesanti stesi il soffice manto bianco della schiuma da barba sul mio mento, rasandolo con delicatezza.
Strofinai la faccia con dell'acqua gelida, sperando di mettere in moto la mia energia. Jesse mi seguiva scodinzolando, e io gli sorridevo, ancora incredulo nell'averlo lì con me.
Mi stesi di nuovo sul letto e con uno scatto del telecomando accesi il televisore: era rimasto come lo avevo lasciato prima di partire, sintonizzato con il canale musicale. Iniziai a fare qualche esercizio di addominali, poi piegamenti, poi addominali, e infine ancora piegamenti. Quando ero vivo quell'attività mi faceva svagare, facendomi dimenticare per qualche secondo tutti i crucci della giornata. La musica accompagnava ogni mio movimento, e mi sembrava quasi di viaggiare nella sua piacevole frequenza, ondeggiando come un fiore mosso dal vento. Avevo finito il workout sudato come al solito, così mi diressi nella doccia e mi lasciai andare sotto il flusso dell'acqua: nella mia testa rivivevo il colloquio con Agnes, e tutte le domande che avrei dovuto porle. Una più di tutte lo tormentava, ma non sapeva come formularla: sembrava un problema molto semplice, ma strutturato come l'enigma di una sfinge. Quel dubbio lo aveva seguito fin dal salotto dell'anziana, e non lo aveva mai abbandonato. Una volta uscito dalla cabina della doccia, nascosi la faccia dentro al mio accappatoio bianco, come per concentrarmi meglio. Ed ecco, il macigno sul suo petto finalmente prese una forma, un aspetto che giustificasse tutte le sue aspettative e la profonda delusione:
Perché non sono felice?
-Vieni Jesse, andiamo a farci un giro-.
Agganciai il collo del cane al guinzaglio con cui lo portavo sempre a spasso; mi ero rivestito con gli stessi abiti bianchi, e non vedevo l'ora di scoprire cosa aveva in serbo per me quel misterioso villaggio. Come mi aveva anticipato Agnes, rividi sempre lo stesso cielo turchino tipico della prima mattina; non ci sarebbe mai stato un mezzogiorno, e mai un crepuscolo. Le case del villaggio erano variopinte come un arcobaleno: prima una gialla, poi una blu, poi una verde. Alle finestre di tanto in tanto si sporgevano gli abitanti: uomini e donne vecchi e canuti, tranquilli e riposati, tutti vestiti con il solito completo bianco. Lungo la strada passeggiavano signore in vestaglia, e di tanto in tanto avvistavo anche qualche incontro di briscola all'aria aperta. Non incrociai nessuno che potesse avere anche solo lontanamente la mia età, fatta eccezione per un uomo sulla trentina che vidi sorseggiare un caffè al suo balcone, con gli occhi incavati in profonde occhiaia. Ad ogni passo la mia speranza si dileguava sempre di più. La mia passeggiata durò circa tre ore, e al mio ritorno trovai sul tavolo in salotto un pollo allo spiedo pronto per essere divorato. Lo masticai lentamente, ingoiandone i pezzi con pigrizia. Il cordless di casa si trovava nell'angolo destro del salotto, appoggiato ad un vecchio comodino. Senza enfasi lo afferrai, e iniziai a digitare il 333.
-Buongiorno! Come possiamo esserti utile, Nathan?-.
-Mi sento solo-.

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