11. Testa e cuore

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Suonava abbastanza patetico, ma la prima cosa che Simone aveva fatto non appena Manuel fu uscito dalla sua stanza fu catapultarsi verso l'armadio e togliersi quella maledettissima camicia che aveva iniziato a stargli stretta sul collo, minacciando di soffocarlo.

Ironia della sorte o forse un segno del destino, la prima felpa che gli capitò sottomano fu proprio una di Manuel, di colore verde.

Stava lì, rintanata nell'armadio di Simone probabilmente da settimane, era passata dalla sua lavatrice chissà quante volte, eppure quando se la calò sulla testa giurò di aver sentito il suo profumo.

Aveva voglia di prendere il telefono e scrivergli qualunque cosa, un "ti prego guida piano" perché sapeva che Manuel quando era di cattivo umore tendeva ad accelerare, un "dimmi se vuoi che ti riporti le tue cose", un "se hai bisogno di qualcosa comunque non esitare a chiamare". E Manuel se ne era andato da neanche un quarto d'ora.

Ma non riuscì nemmeno a prendere in mano il telefono e ad aprire la chat, perché il pensiero che Manuel potesse non rispondergli, lasciargli il visualizzato o addirittura bloccarlo, gli fece salire la bile.

Così non gli restò altro da fare che rannicchiarsi sul letto e stringersi il cuscino su cui Manuel aveva dormito al petto.

Simone non si era mai ritenuto una persona superficiale: riconosceva i suoi difetti, alcuni li accettava e altri, per questioni di orgoglio, non li riteneva tali nemmeno quando le persone glieli facevano notare, ma superficiale no, non pensava di esserlo. Eppure, lo era stato nel peggiore dei modi e con la persona che in assoluto meno se lo meritava. Con la persona che, soprattutto, lui non avrebbe mai e poi mai voluto veder soffrire a causa sua.

Non si era mosso dal suo letto quando suo padre entrò in camera, lasciando che uno spiraglio di luce proveniente dal corridoio gli illuminasse leggermente metà del viso, prima di richiudersi la porta alle spalle e fargli compagnia nel buio della stanza.

«Simone? Ma si può sapere che avete combinato tu e Manuel? Fino a un attimo fa eravate deliziosi insieme e adesso vi ritrovo entrambi a piangere disperati.»

Strinse più a sé il cuscino, alzando la testa per incontrare gli occhi del padre.

«È colpa mia, papà.»

Dante non lo guardò con compassione né con chissà che preoccupazione, bensì con genuina curiosità. Si sedette al suo fianco e scrollò le spalle.

«E che potrai mai aver fatto di così tanto grave?»

«Ho sottovalutato i suoi sentimenti... perché non mi sono mai impegnato a capirli. Lui invece c'è sempre stato per me.»

«Non è da te sottovalutare qualcosa, Simo.»

Tirò su col naso. «Lo so, lo so. È per questo che sono stato così stronzo: non mi sono accorto di niente perché stavo mettendo me al primo posto. E sia tu che lui mi dite sempre di essere un po' più egoista, ma in questo caso, con lui che stava così, non avrei dovuto permetterlo. Non sono stato soltanto egoista, sono stato cieco. E l'ho ferito.»

Con suo padre non era mai stato molto fisico: era Jacopo quello che non si faceva problemi a stringere il genitore in abbracci stritolanti e che accettava senza lamentarsi ogni arruffata di capelli o bacio sulle tempie. Simone gli concedeva solo una stretta alle spalle o al braccio ogni tanto, quando era particolarmente abbattuto. Quella sera gli concesse, per un bisogno personale, di passargli una mano tra i ricci e scostarglieli via dalla fronte, scoprendo ancora di più i suoi grandi occhi tristi.

«Capita a tutti di sbagliare», disse suo padre, questa volta con tono amorevole. «Anche quando si è così tanto innamorati come te adesso.»

«Se si vede così tanto che sono innamorato perché lui pare non averlo ancora capito?»

Ufficialmente, per finta [Simuel]Where stories live. Discover now