IV. Domattina io arrivo da te

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          Il buio non dovrebbe spaventarlo, in verità.

Dopotutto, quante altre volte vi ha già scrutato, scorgendovi solo nero e, non poi così raramente, gli aloni traslucidi dei fantasmi che popolano il suo mondo? Affacciarsi in una stanza buia non dovrebbe sembrargli qualcosa di terrificante, ormai è conscio da tempo che, quando volge le pupille verso l'oscurità, il suo sguardo potrebbe essere ricambiato da quello perlaceo dei morti.

Eppure, quando varca la soglia della stanza occupata da Bruno, sebbene sia solo in una leggera penombra rischiarata dall'alone dorato di una applique da parete, si sente mordere lo stomaco dalla stessa ansia che provava da ragazzino, quando non si era ancora abituato all'idea di dover condividere la propria vita con quella degli spettri.

Allo stesso tempo, è un'ansia diversa, più subdola, che gli recide le corde del cuore. Quella che si prova nel guardare una stanza che potrebbe presto diventare vuota per tutti gli altri, ma non per lui.

In quel momento, mentre si accosta al letto di Bruno, è convinto di stare davvero fissando la morte in faccia per la prima volta; non i volti pallidi dei fantasmi, ma l'attimo sospeso che li precede, la loro attesa, il buio subito prima (è ancor più buio che in strada, lì, è inchiostro denso e viscoso). Ha visto abbastanza spettri annidati nei vicoli e agli angoli delle strade da sapere che un pestaggio del genere può essere letale.

Il volto di Bruno è pulito, adesso, e in un certo senso lo rende ancor più inquietante. Il miscuglio di sangue, polvere e sudore mascherava la reale gravità delle lesioni, mentre adesso spiccano vivide sul suo volto pallido: marchi violenti, impressi da pugni e calci impietosi.

Ricciardi si rifiuta di soffermarvisi e coglie comunque ogni singolo dettaglio che deturpa quel viso così conosciuto (che ha mandato a memoria in ogni sua piega e imperfezione, dalla curva del naso adunco alle piega degli occhi all'ingiù).

Vede la mezzaluna violacea di una punta di stivale impressa sullo zigomo; un sopracciglio tumefatto e la base del naso solcata da un taglio, dove si scorgono la patina lucida di un unguento e il gonfiore dei fili di sutura; le decine di escoriazioni, vecchie e nuove, che gli costellano fronte e guance; la spaccatura profonda, rossastra, che gli solca le labbra, pronta a riaprirsi; l'alone bluastro e sensibile che gli contorna l'occhio destro.

Non osa immaginare cosa celino le lenzuola, ma sa che ci sono altri segni, altre ferite, e nota comunque la fasciatura che gli immobilizza in parte il braccio sinistro. Una pezza di lino bagnata gli rinfresca la fronte, inumidendo i suoi ricci sul cuscino (si chiede come sarebbe passarvi le dita e non è un pensiero che dovrebbe avere adesso).

Credeva di essere preparato a sopportare quella vista, ma scopre di non esserlo affatto, di avere di nuovo quel principio di nausea che preme in fondo alla gola. Non è questa l'ultima immagine che vuole avere di Bruno. Si blocca a un passo dal letto, domando l'istinto di sedersi lì, accanto a lui, di prendergli la mano, di chiamarlo (e rispedisce indietro con fermezza il velo che gli offusca la vista).

La finestra senza soleWhere stories live. Discover now