Capitolo I

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"I see my memories in black and white, they are neglected by space and time

I store all my days in boxes and left my whishes so far behind."

Elisa - Labyrinth


CAPITOLO I

Non appena imboccai il viale d'accesso alla villetta, mi resi conto che ben poco era cambiato nonostante gli anni trascorsi altrove. La lunga fila di arbusti disposti ai lati faceva da cornice a un sentiero rettilineo in ghiaia bianca ben battuta, al termine del quale si intravedeva appena un edificio di piccole dimensioni di colore chiaro.

Avanzavo lentamente, un po' per rispettare la strada che mia zia aveva conservato con tanta cura nel corso degli anni, un po' per il particolare stato d'animo che mi accompagnava dal giorno della telefonata e che sembrava esercitare uno strano freno su di me.

L'orologio digitale posto sul cruscotto della mia automobile indicava le h. 8,35. Mancava ancora quasi mezz'ora all'appuntamento con zia Mary, ma avevo fatto volontariamente in modo di arrivare prima, per capire in solitudine quali sensazioni mi avrebbe suscitato tornare lì dopo tanto tempo.

Sette anni. Per sette lunghi anni i miei passi avevano calpestato strade volutamente distanti da quel luogo, anche se la mia mente non se ne era mai allontanata del tutto. Perché stabilirsi a chilometri di distanza da qualcosa non significa dimenticarlo, neppure se ce lo si impone.

Mentre l'automobile avanzava, potevo avvertire il leggero scricchiolio dei sassolini sotto gli pneumatici, come fossero foglie secche.

Le foglie secche... Quanti ricordi riaffioravano alla mente. I pomeriggi d'autunno Elena, la mia migliore amica, era solita raggiungermi spesso per passare il pomeriggio insieme. Trascorrevamo ore in quel vialetto a rincorrerci, sfidandoci a chi calpestava le foglie più rumorose. Oppure le raccoglievamo in grandi quantità, per poi ammucchiarle e sdraiarci sopra di esse come su morbidi materassi.

Frequentavamo gli ultimi anni della scuola primaria ed eravamo praticamente inseparabili. E ora... Ora non sapevo neppure più che fine avesse fatto.

Mentre la mia mente si intestardiva a rivangare ricordi che pensavo di aver cancellato, raggiunsi la fine del vialetto e arrestai l'auto in prossimità della cancellata che delimitava la proprietà. Impiegai qualche minuto a costringermi a scendere. Ero frenata da un timore che non riuscivo a decifrare in pieno e sentivo i muscoli del corpo irrigidirsi a ogni tentativo di muovermi.

Quando aprii la portiera, fui immediatamente raggiunta dall'aria gelida e pungente di dicembre. Nonostante il sole fosse già alto in cielo, i flebili raggi invernali non riuscivano a trasmettermi il calore di cui tanto sentivo il bisogno.

Feci scorrere lo sguardo sull'intera proprietà: dalla villetta al cortile, al terreno circostante, tutto appariva quasi immutato, conservato e ben gestito, come non fosse mai stato abbandonato dai suoi proprietari originali. Era chiaro che gli zii lo avessero trattato come fosse casa propria.

Ebbi un tuffo al cuore al pensiero di ciò che stavo per fare, eppure non riuscivo a togliermi dalla testa il fatto che quella fosse la cosa giusta, l'unica decisione possibile.

Feci scivolare le dita sulla vernice verde ruvida del cancellino pedonale. I ricordi riaffioravano come polvere invano soffiata via.

Ogni volta che rientravo a casa, da ragazzina, i miei arrivi venivano sempre accolti dai guaiti festosi di Spike. Lui era 10 kg di pura euforia, vivacità, affetto. Era stato mio padre a trovarlo, solo e abbandonato, nei pressi del fiume che scorreva sotto casa. Un cucciolo di pastore tedesco i cui occhi non chiedevano altro che una famiglia. Mi sono sempre chiesta come potessero accadere situazioni di questo tipo, persone dall'animo talmente ignobile da riuscire ad abbandonare una creatura dotata di così immensa fedeltà. Mi appariva così assurdo, inumano, incomprensibile. Nonostante la casa fosse ben tenuta, le aiuole ordinate e tutto pressoché invariato, l'assenza di Spike era talmente profonda da rendere quel quadro fortemente incompleto.

Mossi qualche passo verso il lato sinistro della proprietà dove ancora era situata la piccola serra nella quale mia madre era solita riparare le piante più delicate nei periodi in cui le temperature erano più rigide. Aveva sempre nutrito un forte amore per le piante e, da quanto riuscivo a intravedere, zia Mary aveva portato avanti con devozione anche quell'amore che in effetti, da vivaiste, avevano sempre condiviso.

Stavo facendo scivolare lo sguardo fra gli scheletri dei ciliegi e dei noccioli che delimitavano il lato della proprietà, quando avvertii l'arrivo di un'auto alle mie spalle. Mi volsi subito in quella direzione. Attraverso il parabrezza di una Opel Corsa grigia, riconobbi immediatamente il volto di mia zia, nonostante per anni ci fossimo sentite soltanto telefonicamente. Accanto a lei, alla guida, c'era un ragazzo a me sconosciuto. Pensai a quanti eventi e nuove conoscenze mi fossi persa in quegli anni, tutte situazioni che mi avrebbero resa ancora più estranea alla mia vita precedente.

Era la vita che avevo scelto di seppellire, dimenticare e superare. Ma ora, che mi si ripresentava davanti, farci i conti si sarebbe rivelato addirittura più complicato di quanto temevo. Perché anche se noi decidiamo di fermarci e cambiare binario, il treno che abbandoniamo continua la sua corsa. Con o senza di noi.

COME PETALO NEL VENTO _ La voce silenziosa dei ricordiWhere stories live. Discover now