l'inizio della fine (parte prima)

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E arrivò nella notte senza preavviso. Come tutte le altre volte. Un pugno nello stomaco ,sangue freddo. Battito decelerato, occhi fissi nel nulla. E poi quel flusso caldo. Quello che mi dava calore. Sulle mie guance quel flusso si trasformava in dolci lacrime. Mentre il petto cessava del tutto di battere. Era successo di nuovo. Ma adesso non avevo più paura. Mi ero abituata, almeno una volta al mese avevo quelle fitte al petto. Allungavo la mano, come ogni notte. Mascherina di ossigeno, un respiro profondo. Come una folata di vento. Occhi chiusi e mi rilassavo. E poi un'altra fitta. La più forte di tutte. Allungai la mano e schiacciai il bottone rosso. La lucina lampeggiava e una sagoma correva verso di me. La vista appannata e il battito accelerato. Mi muovevano a destra e a sinistra. Parlavano. Di cosa non lo so. Occhi chiusi e lungo viaggio fu. Non sognai niente. Era tutto buio, ma non so perché ero cosciente mentre dormivo. Sentivo dei passi e delle voci che mi invitavano ad aprire gli occhi. Ma ero stanca. Non avevo né la forza né la voglia di aprirli. Avevo perso la cognizione del tempo. Le ore per me si trasformarono in minuti, i giorni in ore e le settimane in giorni. Per me erano solo cinque minuti che avevo gli occhi chiusi per loro là fuori forse era un tempo infinito.
Poi un giorno, non so dirvi quando sentii una voce. Era lui, solo lui. Mi ricordavo quella voce calda e pacata. La prima volta l'avevo ascoltata in un bar. Quella voce era accompagnata dal suono di una chitarra acustica. Cantava THE SCIENTIST dei COLDPLAY. La miglior cover che io abbia mai sentita. Quella voce mi accompagnò per molti mesi. Mi faceva compagnia e ero l'unica ad aver il privilegio di sentire il suono del TI AMO da quella voce. Quella voce aveva un nome: Mark.
Un ragazzo alto, bruno, occhi celesti e un sorriso da togliere il fiato. Ci innamorammo l'uno dell'altro. Poi la distanza ci divise. Era diventato impossibile vederci, sentirci o semplicemente salutarci. Lui girava mezza Italia con i suoi concerti e io giravo l'Italia per trovare la diagnosi giusta per i miei sintomi.
Ci lasciammo dopo sei mesi. Non lo sentii più. Non lo dimenticai. Non lo vidi più. Rimase nell'ombra. Fin quando un giorno qualunque lo incontrai in una stanza d'ospedale. Da lì in poi iniziammo a condividere la stanza. Non parlavamo molto perché per la maggior parte del tempo stavo con un tubicino o la mascherina d'ossigeno. Ero sempre stordita e facevo avanti e dietro dalla sala operatoria. Lui aveva solo una gamba rotta con dei ferri che gli spuntavano fuori. E io una specie di tumore. Così definirono il mio malessere. Lui mi vedeva soffrire praticamente sempre. Quando non riuscivo a premere il bottone rosso lo faceva lui per me. Lo svegliavo nel cuore della notte con i miei affanni. Oppure con le mie urla. Il mal di testa era talmente forte che afferravo la testa con le due mani e iniziavo a urlare. Mi graffiavo le braccia perché il dolore era insopportabile. Mi sentivo il cervello scoppiare. Ogni pulsazione era un urlo. Oppure quando avevo gli attacchi di epilessia. Iniziavo a tremare. Lui era lì pronto a premere quel bottone o a chiamare un dottore. Era lì che mi fissava quando dormivo. Le uniche volte che potevo parlare gli dicevo un grazie e lui mi sorrideva.
Ma oggi per un motivo strano e da me non conosciuto, oggi lui mi stava parlando. Mi invogliava ad aprire gli occhi e che non ce la faceva più a vedermi cosi, per lui era troppo frustante. Non sopportava quei tubicini collegati sul mio corpo. Non sopportava più di vedermi inerme stesa sul quel letto d'ospedale senza reagire. Ma lui non sapeva che avevo gettato la spugna. Che non volevo più combattere contro una massa al cervello che non poteva essere rimossa. Non volevo più stare lì dentro. Erano più di 250 giorni che stavo lì dentro e che non vedevo più il mondo là fuori. Per 250 giorni non ho più ascoltato la musica, né visto la TV, né dipinto. Ma la cosa più triste è che non avevo assistito al cambiamento delle stagioni. Non mi ricordavo più la sensazione dell'erba sotto ai piedi, o quella della sabbia, o semplicemente camminare. Le uniche cose che potevo fare era leggere e vedere foto. Non era vita quella. Essere cosciente solo per pochi giorni e poi essere travolta da farmaci e dolori allucinanti. Vedere i tuoi parenti che piangono vedendoti in questo stato e sentire la loro rabbia perché non posso fare niente, leggere nei loro occhi l'impotenza. Non volevo più farli soffrire e non volevo più soffrire. Tanto avevo vissuto una vita breve ma piena. Mi mancavano altre cose come diplomarmi, laurearmi, avere una famiglia. Diventare grande vivere una vita serena. Ma era un sogno troppo lontano e impossibile da raggiungere.

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