34- Lítost.

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Lítost: (n.) a state of agony and torment created by the sudden sight of one's own misery.

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Lilith.

Se a dicembre mi avessero detto che sei mesi dopo mi sarei trovata in cucina con il mio ex amico d'infanzia, dopo una giornata passata con la bambina a cui faccio da babysitter, avrei riso sinceramente e non ci avrei mai creduto. Eppure, le cose stavano esattamente così.

Io e il detective avevamo appena riaccompagnato la piccola Vera a casa dopo averla portata a pranzare fuori, in seguito a una giornata sui banchi di scuola, con il consenso dei suoi genitori.

Giugno era giunto e mancava ancora un mese all'inizio delle vacanze estive, ma il caldo e le giornate più o meno soleggiate rendevano difficile per la bambina alzarsi dal letto e trovare la voglia di andare a scuola. Non potevamo biasimarla, e per farla sentire meno sola, il ragazzo dai boccoli biondi raccontò dei suoi anni da studente, condividendo con Vera tutti i rimproveri ricevuti da Hannah quando saltava la scuola.

Sentire Julian parlare in quel modo aiutò la piccola a rendersi conto che non era l'unica a sentirsi così e che non c'era niente di anormale nei suoi piccoli capricci; anche chi aveva voti impeccabili e un'educazione ammirevole poteva concedersi quei momenti di pigrizia e stanchezza. Queste parole, pronunciate da uno dei detective più giovani e richiesti della città, acquisivano un certo valore.

«Ci sai fare con i bambini» mi complimentai, accendendo finalmente una sigaretta.

A Julian il fumo non dava particolarmente fastidio, ma se la persona con la sigaretta fra le dita ero io, non riusciva a nascondere lo sguardo contrariato. Quindi, quando c'era lui, cercavo in tutti i modi di evitare, riuscivo a stare anche tre ore di fila senza toccare il pacchetto; ma quel giorno ero stata anche più di cinque ore senza quel fumo tossico, e il mio corpo non riusciva più a trattenersi. Forse lui lo capì al volo e, di conseguenza, non disse niente quando spalancai la finestra della cucina per soffiare fuori il fumo.

Avevo dormito male, svegliandomi almeno cinque volte per incubi diversi, e l'unica cosa a cui riuscivo a pensare era soffocarmi con quella nuvoletta grigia proveniente dalla sigaretta.

«È Vera a essere educata e calma, non è difficile starle dietro» scrollò le spalle.

«Sai come rivolgerti ai bambini e hai anche molta pazienza, accetta il complimento e non rompere».

«Anche tu sei brava, molto».

Non lo ero, non quanto lui. Io mi limitavo a imitare ciò che avrei voluto che gli adulti nella mia vita avessero fatto con me. Rubavo gesti lasciati da Katherine, l'unica che avesse mai cercato di imitare una figura genitoriale nella mia vita, mentre scavavo negli angoli della memoria alla ricerca di frammenti narrati da Rose sulla sua infanzia.

Osservavo i bambini con i loro genitori, scrutando con attenzione i loro gesti, le loro parole, i loro sguardi, e assorbivo tutto ciò che ritenevo normale, tutto ciò che pensavo potesse essere sano ed educativo. Nella mia mente, questo era un tentativo di spezzare la catena di traumi e schiaffi subiti, una via per curare la mia bambina interiore. Era un sentiero patetico e incoerente, un paradosso vivente.

Carezzavo le guance di Vera, immaginando che fossero quelle della piccola Lilith. Ma poi, la sera stessa, affondavo la lametta nella mia pelle, rovinando tutto. Portavo Vera alle mostre d'arte perché era ciò che voleva, pensando che potesse servire alla Lilith bambina a non perdere mai la speranza nel futuro. Tuttavia, quando mi veniva chiesto, rifiutavo di suonare e strappavo con forza e violenza ciò che la bambina dentro di me desiderava con tutto sé stessa.

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