CABALA CITY CAPITOLO 7

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Ero nel giardino della nostra villetta, ubicata nell'ovest di Cabala City.

Il giardino un tempo assai curato era diventato una amalgama di foglie e terriccio.

Era una bella giornata estiva, non faceva né troppo caldo né troppo freddo.

Il venticello tiepido e le farfalle danzanti sui fiori mi avevano indotta a sdraiarmi sull'amàca.

Su quel giaciglio che si reggeva attraverso delle corde fissate all'estremità di due colonne di marmo di stile dorico cominciai a osservare il panorama adiacente.

Billy dentro casa aveva il naso schiacciato contro il vetro della finestra a ghigliottina.

I suoi profondi occhi gialli mi comunicavano che Michael si era dimenticato di mettergli i croccantini.

Non mi andava però di alzarmi e di cibare il gatto, volevo prima riposarmi un po'.

Non sarebbe di certo schiattato per un pasto in ritardo.

E poi il nostro gatto stava diventando grasso e grosso come il suo padrone.

Non avevamo in casa un gatto, ma un cucciolo di tigre appesantito.

Michael amava lo stile classico.

Questo era uno dei pochi aspetti che mi aveva portato a innamorarmi di questa casa.

C'erano delle statue nel passetto ispirate al mondo ellenistico. Ad un tratto il mio sguardo si soffermò sul vaso vicino l'ingresso della porta.

Amavo da sempre quel vaso. Lo usavamo come porta ombrelli.

Il vaso in questione raffigurava il dio Ermes, ricurvo e pensoso, teso a scattare in volo con le sue piccole ali per compiere il periplo del mondo, con i suoi messaggi provenienti dall'Olimpo.

La mitologia classica era stata per me una fonte di ispirazione.

Un flashback ritornò a galla nella mia mente.

Quel vaso l'avevamo comprato nel nostro viaggio di nozze circa un anno fa ad Agrigento, quando mio marito aveva 20 chili in meno e riusciva ancora a essere un po' ginnico.

Avevo ricordato che in quell'occasione, la sera prima di comprare quel vaso avevo fatto uno strano sogno.

Avevo sognato di essere nel centro della città.

Era mattina e mi sembrò così strano udire una voce soave, perché intorno a me c'erano rumori di auto e di motorini. La mia vena creativa non era sorpresa di tutto ciò. D'altronde, mi trovavo in prossimità delle terre che Empedocle di Agrigento (morto nel 423 a.C.) definiva: «L'interminabile gioco del mondo».

Questi narrava che quando il dio Pan approdò su quegli scogli squarciò un giunco e costruì un flauto la cui melodia echeggiando racchiuse in un'unica armonia, l'acqua, l'aria, la terra e il fuoco.

Quando mi allontanai dal centro della città e mi diressi verso le campagne agrigentine, una luce abbagliante accecò i miei occhi e per qualche istante vidi delle farfalle luccicanti che danzavano trasportate dal vento sui campi fioriti.

Mi sentii tra quelle danzatrici un grillo canterino capace di guizzare rapidamente da un fiore all'altro.

Aprii gli occhi e percepii di fronte l'immagine di una ninfa con una lunga vestaglia bianca.

Sembrava una fata, ma lei proferì di essere una nereide di nome Galatea.

Mi spostai sopra una barca di fortuna, lei, vicino a me, cavalcava una bige volante trainata da un cavallo nero con delle ali e una grossa coda a forma di pesce.

CABALA CITYWhere stories live. Discover now