Una lunga sera

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Avevo finito di assistere al concerto assente con gli occhi lucidi e la mascella serrata.
Sentivo le canzoni ma non le ascoltavo.
Guardavo gli altri ridere per le loro gaffe in un americano sbagliato di proposito, ma non mi sforzavo nemmeno di partecipare.
Mi concentravo sulle voci di Piero e Gianluca, ma nulla, la sua mi attraversava l'anima torturandola.
La sua mi portava i brividi sulla pelle ed io cercavo di smorzarli con la rabbia che nutrivo nei suoi confronti.
Il pubblico si alzava in piedi per lo standing ovation, ma io rimanevo lì, immobile sulla poltrona rossa a pensare alle sue dolorose parole e al modo scombussolante e disorientato in cui mi aveva baciata.

Sarei dovuta uscire fuori e dare aria ai polmoni incapaci di respirare, ma ero rimasta per non dargli la soddisfazione e per farmi più forte della mia collera.
Volevo turbarlo e volevo vederlo a disagio, come mi ero sentita io sotto le sue decisioni senza senso.
Volevo fargli male nel cuore almeno la metà di quanto lui ne aveva provocato in me.
Se lui avesse detto di non amarmi io lo avrei accettato, ma così non riuscivo a trovare pace dentro.
Mi domandavo cosa ero stata io per lui in quei giorni e non trovavo le risposte.
Allontanarsi per non soffrire in un futuro era la condanna a farsi male nel presente.
Non seguiva un filo logico ciò che aveva fatto.
Significava vietarsi di vivere e chiudersi ermeticamente alle emozioni.
Voleva dire scappare e fuggire sicuri verso una pena.
Eppure io lo avevo sentito il suo battito farsi insistente sotto le mie mani.
Lo avevo sentito il suo respiro affannarsi e la felicità nel trovarmi lì.
Perché respingermi?

Adesso cercavo la freddezza e la fermezza mentre la grande tenda rossa calava verso il basso, chiudendo il sipario sulle note di Grande Amore e i loro simpatici inchini.
Adesso cercavo la fortezza e una corazza dietro cui crogiolarmi e nascondermi, mentre le urla e gli applausi riecheggiavano nel maestoso spazio di Chicago Theatre.
I lampioni antichi e maestosi si accendevano per fare luce nell'immensa sala raffinata, e il suo sorriso, che prima mi aveva fatta innamorare, ora mi deludeva.
Cercavo un contegno mentre qualcuno si avvicinava al palco per scattare una foto e le sedie piano si svuotavano.
Cercavo l'equilibro mentre mi alzavo e la testa mi girava forse per la stanchezza del jet-lag o per il dispiacere.
Cercavo la quiete quando dentro qualcosa esplodeva violentemente.
Percorrevo l'uscita sui tappeti rigorosamente rossi e quell'espressione speranzosa, che mi aveva accompagnata prima entrando, adesso mi sembrava inaudita e irraggiungibile.
Mi sentivo pesante ma vuota.
Leggera di una mancanza ma oppressa dai sentimenti, che turbolenti continuavano a giocarmi brutti scherzi.

"Signorina" una voce familiare alle mie spalle mi aveva chiamata prendendo l'attenzione che volava sui muri invalicabili dell'incomprensione.
"Questo è per lei" lo stesso uomo di prima mi porgeva un piccolo bottoncino bianco.
Il mio bottoncino.
Quello che avevo dato a lui quella volta nel letto.
La prima volta insieme.
Un patto d'amore avevamo stretto dandoci la mano per un gioco, e adesso, qualcosa era andato storto.
Quel patto si era rivelato inutile perché il "vedersi senza aspettative" era fallito al primo tentativo.
Ingenuamente avevamo sottolineato in quella promessa di non superare il confine, quando in realtà, eravamo andati già oltre quella linea sottile ed invitante.
Non dovevamo chiamarci amore o dirci ti amo, ma quelle parole sembravano così normali e naturali in quei momenti, che erano scivolate via da noi senza chiedere il permesso.
Quel patto pretendeva di dover condividere solo del tempo, ma invece, avevamo sintonizzato l'anima e la mente sullo stesso canale.
Evidentemente l'amore non era fatto per i patti, per le regole imposte o per i limiti.
L'amore è un impulso che si segue nel bene e nel male.
Ti bagna di mille lacrime diverse e ti brucia di mille fuochi simili sulla pelle.
È come un auto che corre veloce su un'autostrada verso il mare.
Segue una guida spericolata incurante dei segnali di velocità, incurante delle altre vetture che ci sono davanti.
Si fa spazio sulla carreggiata e abbatte i guardrail e le transenne, e ti investe senza pensarci, come se al volante ci fosse un pazzo ubriaco.
Le gomme stridono sull'asfalto ma non frena, ti colpisce in pieno, e il tuo cuore batte forte perché senti qualcosa che ti attraversa dentro, nel fondo, sotto le pieghe più nascoste.
Sotto gli angoli più remoti si costruisce un terreno fertile di rose spinose.
Ecco, io e lui avevamo subito un incidente in un incrocio.
Entrambi eravamo feriti e con il cuore aperto, solo che lui si rifiutava di uscire da quel coma e affrontare la realtà.
Si rifiutava di accettare i fiori con le spine.
"Glielo manda il signor..."
"Lo so. Il signor Boschetto!" lo avevo zittito io prendendolo nel palmo e intorrompendo quel flusso su teorie davvero inspiegabili per poterle ipotizzare.
Era tutto chiaro.
Quel bottone era come un simbolo e lui lo aveva restituito.
Voleva chiudere per davvero.
Non voleva nulla di me eppure si era preso qualcosa di più importante: un respiro.

Ero uscita fuori dove mi attendeva il mio taxi.
Avevo sentito l'aria fredda tagliarmi la pelle e sferzarmi il viso più pallido, e avevo infilato il cappotto nero che avevo portato con me.
Più avanti, sulla sinistra, un SUV nero era circondato da un gremito gruppo di ragazze in preda ai deliri.
Chiedevano foto e autografi ai ragazzi.
"I love you Gianluca" gridava qualcuna.
"Piero is the best!" affermava stridula qualcun'altra.
"I'm crazy for you Ignazio" aveva detto più calda una mora dai lunghi capelli, strusciandosi contro.
Le aveva sorriso teneramente lui, aveva scambiato qualche parola e alzando lo sguardo di nuovo aveva incontrato il mio, geloso e carico di una voglia matta di gridare ai quattro venti quanto fosse stato stupido.
Si era fatto cupo e distaccato all'improvviso.
Si era spento soffermandosi sul mio vestito e aveva mandato giù un groppo in gola dal sapore ingombrante.
Il mio taxi aveva suonato ed io ero salita sotto i suoi occhi vigili ed attenti.
Sotto i suoi occhi colmi e inspiegabilmente assenti.
Eloquenti ma incapaci di esprimere la verità.
Sembrava custodire così tanti dubbi dentro, che sarebbe potuto esplodere da un momento all'altro in quella parvenza di serenità, ma restava lì, dove doveva essere a fare il suo dovere.
Afferrava una penna, scriveva il suo nome senza guardare perché fissava me che andavo via.
Ma non l'avevo scelto io.
Lo aveva scelto lui quel risvolto ingiusto.

"Four Season Hotel, please" avevo chiesto al tassista che intanto avviava il contachilometri.
Chiudevo la portiera e mi stringevo nelle spalle, consolandomi nel tepore della vettura riscaldata.
Sembrava più deserta la città e meno illuminata.
Su una panchina un barbone si preparava per la notte fredda.
Sul finestrino appannato mi ritrovavo con l'indice a tracciare frustata e rassegnata, le nostre iniziali per poi cancellarle, come già succedeva tempo prima.
Ormai mi restava solo quello di quel breve, eppure, così eterno noi.
Entravo nella hall dell'albergo e mi pareva di vedere il suo profilo nella fiamma scoppiettante di un camino.
Avevo inserito il badge nella porta della mia camera accogliente, e una giovane coppietta innamorata dall'accento francese, si affrettava ad entrare nella stanza di fronte, molto probabilmente per amarsi senza freni.
Senza quei cartelli che Ignazio aveva appoggiato per me dettato dalla paura di farsi coinvolgere.
Faceva invidia l'amore soprattutto dopo averlo appena perso senza una cognizione di causa.

E adesso cosa succedeva?
Adesso io avrei cercato il modo di dimenticare.
Avrei rovistato fra le mie risorse per trovare la tranquillità a cui tanto ambivo.
Sarei andata sicuramente avanti come avevo sempre fatto.
Forse in preda ad un lecito momento di malinconia, lo avrei chiamato senza parlare o forse sarebbe potuto essere lui, quello muto dietro ad un telefono.
Chissà!
Quella sembrava essere divenuta una moda per tutti ormai.
Io però avrei trovato un modo per non pensarlo.
Come un gatto sarei caduta in piedi.
Anche io avevo una carriera, una vita, e anche piuttosto impegnatativa.
Bastava camminare, superare, convincersi, oltrepassare e continuare.
Bastava imparare, cancellare, riscrivere, non tornare.
Bastava fare qualcosa.
Bastava respirare.

"È una lunga sera c'è una calma strana
Pure la città non fa rumore e non vedo gente camminare
C'è la luce stanca di un lampione
e chi prepara un letto di cartone
Questa nebbia fitta che mi oscura,
l'unico bar aperto del quartiere,
Sento in lontananza una canzone,
ci sarà qualcuno a far l'amore
Mentre c'è chi soffre e c'è chi spera di svegliarsi per amare ancora
Mi mancherai sempre seduta a quel gradino
Ti cercherò nel fuoco acceso di un camino e scriverò col dito sopra a un finestrino
I nostri nomi senza averti più vicino
Tu mi aspetterai
Senza vedermi più arrivare
Io camminerò senza sapere dove andare
Poi ti chiamerò ma starò lì senza parlare
Come tu facevi con me
Forse questa maledetta noia è l'inizio della nostra fine,
Cancelliamo senza una ragione
Tutto ciò che abbiamo scritto insieme
Ti mancherò quando l'inverno è più vicino e mi cercherai ma io sarò troppo lontana
Ti cercherò nel caldo abbraccio di un cuscino
Mi sognerai ma non mi stringerai la mano
Io di notte guarderò le foto tue per ore, tu rileggerai tutti i messaggi miei d'amore
Poi mi chiamerai ma starai lì senza parlare
Come io facevo con te
Forse capirò come poterti cancellare
Forse capirai che mi potrai dimenticare
Ma se il nostro amore è veramente un grande amore,
no, non può finire così..."

Se Ritorno Da Te....(#Wattys2016)Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora