Capitolo Primo - Un lavoro che proprio non ci piace

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Era una notte buia e tempestosa...no era una mattinata afosa...no era un pomeriggio uggioso...no era...non ricordo il tempo fuori com'era, ricordo solo che era un giorno come gli altri. Mi svegliai alle 8.00, feci una colazione veloce a base di caffè e cornetto alla crema del discount, pausa gabinetto di trenta minuti con rapida lettura delle notifiche di Facebook e una doccia al volo con tanto di esibizione canore di alcuni pezzi classici dei Pooh. Alle 9.30 ero già in ufficio e alle 10 avevo già voglia di spaccare la tastiera ergonomica sulla pelata del capo ed andarmene via, magari insieme a qualche, non necessariamente una sola, segretaria del piano di sopra.

Il capo aveva quel sorriso giallo sigaretta degno di Massimo Moratti, aveva anche gli stessi soldi e questo lo rendeva, a suo parere, migliore di tutti noi, ma non capiva di essere solo un ricco e viziato figlio di papà.

Era stato il padre a fondare l'azienda a soli 30 anni e fino al suo ultimo giorno di vita era venuto in azienda a lavorare con noi, magari non era proprio una bella cosa avere un vecchio moribondo tremante in giro per l'ufficio, passavamo il tempo a rialzare il boccione dell'acqua che faceva cadere ogni dieci minuti, magari era snervante dovergli spiegare ogni giorno che il tuo box non era il bagno, però almeno ci metteva l'impegno e non ci ha mai fatto mancare il meglio.

Prima di morire ha pensato bene lanciare l'Azienda (così si chiamava la sua creatura) sul mercato azionario, in questo modo adesso era di proprietà degli azionisti, per lo più casalinghe con qualche spicciolo in banca, che a fine anno si vedevano recapitare a casa un assegno di poche centinaia di dollari, senza sapere che l'amministratore delegato tratteneva per se la fetta più grossa degli utili.

Col passaggio a public company, Denti Gialli dovette accettare un ruolo da dirigente, nulla di più.

Quella mattina, si presentò nel mio box, quello dove urinava il padre, di due metri per due, col suo solito disgustoso sorriso.

Quando aprì quella fogna che osa chiamare bocca, una mosca gli si ficcò in gola sicura di trovare la più grossa montagna di merda della terra, e non sarei sorpreso se l'avesse anche trovata. Che hai fatto ieri sera? – mi disse con quella sua voce rauca e petulante - Niente di ché, sono uscito con qualche amico. Solito bar, solita birra - anche se avrei voluto dirgli "mi sono fatto tua sorella!". Lui invece, con quel suo solito ghigno e quella sua leggera erre moscia - Pff! Io sono uscito con la nuova valletta di TeleV. Solita suite, solito Champagnino, solito bunga bunga!

Avrei volito dirgli: wow! Ma non avrebbe colto l'ironia e avrebbe iniziato a credere che lo invidiavo, che volevo essere anche io come lui, che volevo fare anche il Bunga Bunga il sabato sera insieme a dieci ballerine mulatte col culo di marmo...e come dargli torto? Era brutto come Gargamella ma aveva tutto: fama, potere e donne.

Mi limitai ad annuire, mi girai e continuai a lavorare. Lui andò via un po' deluso, ma ero sicuro che il leccaculo del box di fianco al mio sarebbe caduto nella sua trappola e avrebbe iniziato a pomparlo di complimenti, a dirgli che era un gran figo, che avrebbe voluto un decimo della sua fama e del suo potere, e magari gli avrebbe chiesto se voleva dargli un calcio nelle palle.

Finalmente quel grigio orologio a parete segnò le tredici e nel giro di pochi minuti ero già in mensa, ma la giornata divenne ancora più cupa. Come primo piatto ci servirono pasta e cavolfiore, per secondo merluzzo e carote lesse. Chiesi alla signora della mensa se si fosse fornita nell'ospedale di fronte o se avesse assunto Benedetta Parodi in cucina. Mi rispose con uno sputo sul merluzzo, che sono sicuro abbia avuto uno spasmo in quel momento. Ringraziai e andai a sedermi al "tavolo dei depressi", si chiamava così perché era il tavolo in cui si sedevano tutti i laureati al quarto rinnovo da stagista, quelli che, per intenderci, sognavano di diventare manager, poi avevano abbassato il tiro e volevano diventare dirigenti, poi impiegati, per poi limitarsi ad elemosinare un contratto che durasse almeno dodici mesi.

Al tavolo c'erano i miei tre compagni di sventura: Leonard Ashler, Esperto di Marketing ed ex Bocconiano, passava le giornate a stilare report su report, dei quali nessuno conosceva l'utilità; Pier Duisenberg, Esperto di Finanza, incaricato alla distribuzione di buoni pasto; David Patten, Dottore in Lettere classico, corregge la grammatica delle lettere di assunzione e di licenziamento. Poi c'ero io, Jerome Anderson, Esperto in Ricerca e Sviluppo. La mattina iniziavo col ricercare il fornitore di materiale d'ufficio più economico e concludevo il pomeriggio sviluppando un presentazione in Power Point per illustrare quante penne erano sparite durante il giorno...ero l'addetto alla cancelleria.

Quel giorno nessuno di noi aveva un gran voglia di lavorare, in realtà nessun giorno dell'anno avevamo voglia di lavorare, ma dovevamo. Il nostro era un lavoro di merda ma qualcuno doveva pur farlo, ma non dite all'inserviente che ho detto questa cosa, soprattutto dopo ora di pranzo, soprattutto dopo che Leonard era passato per il bagno del terzo piano.

Riuscivamo a trovare un piccolo sorriso quando alle 17 in punto la ragazza del bar della mensa portava il Tè al capo. Era bella da mozzare il fiato, aveva un culo che parlava più lingue del Papa, ma cosa più importante odiava quello stronzo dai denti gialli forse più di noi, così ogni giorno, prima di entrare nel suo ufficio, si girava verso di noi e dopo averci fatto l'occhiolino, sputava nella tazza del Tè. Quello sputo veniva accompagnato da una ola che attraversava tutto l'openspace.

Alle 18 precise, un lieve segnale acustico, quasi impercettibile per gli estranei, annunciava la chiusura degli uffici e noi quattro, manco se stessimo a Pamplona il giorno dei tori, ci precipitammo fuori da quell'odioso palazzo, prima che il dirigente di turno ci chiedesse di dargli una mano a portar giù pacchi di risme di carta che occasionalmente rubava dal magazzino.

Come ogni sera ci demmo appuntamento alle 21 al solito bar, "Il gladiatore", il primo che arrivava prendeva il tavolo, l'ultimo lo prendeva nel culo e pagava da bere a tutti.

Salii sul tram e mi diressi a casa, avevo bisogno di una doccia calda, avevo ancora la puzza dei cavolfiori addosso e qualche schizzo di sputo del capo tra i capelli, e non ero l'unico ad accorgermene, tutte le persone attorno a me mi evitavano. Un bambino di pochi mese iniziò a piangere nel momento in cui salii fino a quando scesi, poi magicamente ritornò a sorridere tra le braccia della madre, che nel frattempo mi aveva maledetto.

Il bello di non avere un coinquilino, o meglio, di avere un coinquilino sociopatico, è che ti lascia sempre il bagno libero, così mi buttai subito sotto la doccia. Ripensi al culo della barista, ai denti del capo, al numero delle volte in cui qualcuno spunta nel piatto di un altro nella mia azienda...ripensavo a tutta la giornata...poi pensai anche che se non mi davo una mossa dovevo pagare io!

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⏰ Cập nhật Lần cuối: Feb 23, 2016 ⏰

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