38. L'importante è fare schifo con stile

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«Sel, Harry! Guardate cos'ho scritto!»

Era diventata la più fastidiosa routine del mondo, quella. Jane, Jane e ancora Jane, e francamente non ne potevo più di fingere stupore e meraviglia ai suoi disegni malformati e strambi. Mi stavano facendo diventare matto.

Sel ed io eravamo appena rientrati a casa, dopo l'ennesima giornata di lavoro per lei e l'ennesima di noia per me, solo per trovare la marmocchia e Dalia che leggevano un libro e coloravano fogli di carta: era diventata un'abitudine per loro. Ogni giorno, la donna le insegnava a leggere e a scrivere, la istruiva sulla storia, sulla geografia e sulla matematica come se fosse a scuola, poi alla sera, Sel le raccontava una fiaba mentre io stavo a guardarle, sorprendendomi di quante cose Selena effettivamente conoscesse. Tu le chiedevi una curiosità, lei te ne diceva dieci in più senza neanche rendersene conto.

L'avevo sempre detto che la mia ragazza era intelligente. Me lo faceva venire duro solo parlandomi dei viaggi sulla Luna, o dell'assassinio di Kennedy e fratello, o di quella volta che due aerei si schiantarono dritti dritti nelle Torri Gemelle a New York – non così lontano da qui, dopotutto. E quando raccontava a Jane queste cose, allacciandole alle classiche fiabe per bambini, alzava gli occhi su di me, come a chiedermi conferma di quanto stesse dicendo: io annuivo e basta. Come avrei fatto a contraddirla, anche se avessi voluto? Ero stregato da tutto ciò che la riguardasse. Facevo finta di sapere quelle cose, ma in realtà ne conoscevo una su dieci – non ero appassionato come Selena: lei, cazzo, lei ci metteva l'anima. Si tuffava di testa in quel fiume di inchiostro e carta, e ne riemergeva sempre con qualcosa di nuovo. Io, dal canto mio, non facevo altro che amarla sempre di più, e così me ne stavo seduto sulla sponda del fiume, a guardarla imparare e basta.

Erano volate in questo modo, le settimane successive a Natale: non era accaduto molto, né in città, né con James, né in casa. Verso la metà di gennaio, quando le mie costole erano praticamente guarite, avevo ricominciato ad uscire da Smoke Town per conto di James, accompagnato a volte da Lee, altre da Daniel, ma era affare nella norma. L'unica cosa diversa, era, per l'appunto, Jane, quella marmocchia fastidiosa che ogni sera mi impediva di fare esperienza extrasensoriale con Sel, intrufolandosi fra di noi e stringendosi a me, al posto della mia ragazza.

Non potete capire che nervoso.

«Vi piace il mio disegno?» esclamò la marmocchia, saltando giù dalla sedia e correndoci incontro con un foglio che sventolava come una bandiera bianca.

Sel si inginocchiò e prese il pezzo di carta in mano. «Harry, Sel e Jane,» lesse ad alta voce, poi mi mostrò il disegno. Tre figure stilizzate si tenevano per mano, quella nel mezzo più piccola rispetto alle altre due, mentre un cuore rosso era stato dipinto in alto.

Oh, Cristo. Mi sembrava di vedere Egon Schiele, quel pittore del cazzo. Quanto non lo sopportavo. Ormai, la mia casa era cosparsa di disegni simili a quello: il frigo in cucina, le pareti, ogni mobile abbastanza basso per cui lei riuscisse ad arrivarci, la testiera del mio letto, e pure la tavoletta del cesso – quella volta che ero andato a cagare e mi ero ritrovato davanti la mia stessa faccia, disegnata tipo Egon Schiele, quasi diventavo stitico.

«È molto bello,» mentii di nuovo. Non facevo altro che mentirle per non ferire i suoi sentimenti. Aveva avuto già abbastanza merda da suo padre. «Ti va se questo me lo tengo io? Lo piego e lo metto nel portafogli, okay?»
Sapevo l'avrei buttato alla prima occasione buona.

Jane annuì, contenta: «Te ne faccio un altro!»

«No, no, Jane, me ne basta-» ma era già corsa via a prendere un secondo foglio. «-uno,» finii la frase sbuffando come un caprone rimbambito e vecchio, lasciando perdere. Tanto, avrei buttato pure quello.

Smoke TownWhere stories live. Discover now