Capitolo 3

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Carlomagno cavalcava alla testa dell'esercito dei Franchi. Erano in marcia d'avvicinamento; non c'era fretta; non s'andava tanto svelti. Attorno all'imperatore facevano gruppo i paladini, frenando per il morso gli impetuosi cavalli; e in quel caracollare e dar di gomito i loro argentei scudi s'alzavano e s'abbassavano come branchie d'un pesce. A un lungo pesce tutto scaglie somigliava l'esercito: a un'anguilla.
Contadini, pastori, borghigiani accorrevano ai bordi della strada. - Quello è il re, quello è Carlo! - e s'inchinavano giú a terra, ravvisandolo, piú che dalla poco familiare corona, dalla barba. Poi subito si tiravano su per riconoscere i guerrieri: - Quello è Orlando! Ma no, quello è Ulivieri! - Non ne imbroccavano uno, ma tanto era lo stesso, perché questo o quell'altro lì c'erano tutti e potevano sempre giurare d'aver visto chi volevano.
Agilulfo, cavalcando nel gruppo, ogni tanto spiccava una piccola corsa avanti, poi si fermava ad aspettare gli altri, si girava indietro a controllare che la truppa seguisse compatta, o si voltava verso il sole come calcolando dall'altezza sull'orizzonte l'ora. Era impaziente. Lui solo, lì in mezzo, aveva in mente l'ordine di marcia, le tappe, il luogo al quale dovevano arrivare avanti notte. Quegli altri paladini, ma sì, marcia d'avvicinamento, andar forte o andar piano è sempre avvicinarsi, e con la scusa che l'imperatore è vecchio e stanco a ogni taverna erano pronti a fermarsi per bere. Altro per via non vedevano che insegne di taverne e deretani di serve, tanto per dire quattro impertinenze; per il resto, viaggiavano come chiusi in un baule.
Carlomagno era ancora quello che provava piú curiosità per tutte le specie di cose che si vedevano in giro. - Uh, le anatre, le anatre! - esclamava. Ne andava, per i prati lungo la strada, un branco. In mezzo a quelle anatre, era un uomo, ma non si capiva cosa diavolo facesse: camminava accoccolato, le mani dietro la schiena, alzando i piedi di piatto come un palmipede, col collo teso, e dicendo: - Quà... quà... quà... - Le anatre non gli badavano nemmeno, come se lo riconoscessero per uno di loro. E a dire il vero, tra l'uomo e le anatre lo sguardo non faceva gran distacco, perché la robe che aveva indosso l'uomo, d'un colore bruno terroso (pareva messa insieme, in gran parte, con pezzi di sacco), presentava larghe zone d'un grigio verdastro preciso alle loro penne, e in piú c'erano toppe e brandelli e macchie dei piú vari colori, come le striature iridate di quei volatili.
- Ehi, tu, ti par questa la maniera d'inchinarti all'imperatore? - gli gridarono i paladini, sempre pronti a grattar rogne.
L'uomo non si voltò, ma le anatre, spaventate da quelle voci, frullarono su a volo tutte insieme. L'uomo tardò un momento a guardarle levarsi, naso all'aria, poi aperse le braccia, spiccò un salto, e così spiccando salti e starnazzando con le braccia spalancate da cui pendevano frange di sbrindellature, dando in risate e in "Quàaa! Quàaa!" pieni di gioia, cercava di seguire il branco.
C'era uno stagno. Le anatre volando andarono a posarsi lì a fior d'acqua e, leggere, ad ali chiuse, filarono via nuotando. L'uomo, allo stagno, si buttò sull'acqua giú di pancia, sollevò enormi spruzzi, s'agitò con gesti incomposti, provò ancora un "Quà! Quà!" che finì in un gorgoglio perché stava andando a fondo, riemerse, provò a nuotare, riaffondò.
- Ma è il guardiano delle anatre, quello? - chiesero i guerrieri a una contadinotta che se ne veniva con una canna in mano.
- No, le anatre le guardo io, son mie, lui non c'entra, è Gurdulú... - disse la contadinotta.
- E che faceva con le tue anatre?
- Oh niente, ogni tanto gli piglia così, le vede, si sbaglia, crede d'esser lui...
- Crede d'essere anatra anche lui?
- Crede d'essere lui le anatre... Sapete com'è fatto Gurdulú: non sta attento...
- Ma dov'è andato, adesso?
I paladini s'avvicinarono allo stagno. Gurdulú non si vedeva. Le anatre, traversato lo specchio d'acqua avevano ripreso il cammino tra l'erba con i loro passi palmati. Attorno allo stagno, dalle felci, si levava un coro di rane. L'uomo tirò fuori la testa dall'acqua tutt'a un tratto, come ricordandosi in quel momento che doveva respirare. Si guardò smarrito, come non comprendendo cosa fosse quel bordo di felci che si specchiavano nell'acqua a un palmo dal suo naso. Su ogni foglia di felce era seduta una piccola bestia verde, liscia liscia, che lo guardava e faceva con tutta la sua forza: - Gra! Gra! Gra!
- Gra! Gra! Gra! - rispose Gurdulú, contento, e alla sua voce da tutte le felci era un saltar giú di rane in acqua e dall'acqua un saltar di rane a riva, e Gurdulú gridando: - Gra! - spiccò un salto anche lui, fu a riva, fradicio e fangoso dalla testa ai piedi, s'accoccolò come una rana, e gridò un - Gra! - così forte che in uno schianto di canne ed erbe ricadde nello stagno.
- Ma non ci annega? - chiesero i paladini a un pescatore.
- Eh, alle volte Omobò si dimentica, si perde... Annegare no... Il guaio è quando finisce nella rete con i pesci... Un giorno gli è successo mentre s'era messo lui a pescare... Butta in acqua la rete, vede un pesce che è lì lì per entrarci, e s'immedesima tanto di quel pesce che si tuffa in acqua ed entra nella rete lui... Sapete com'è, Omobò...
- Omobò? Ma non si chiama Gurdulú?
- Omobò, lo chiamiamo noi.
- Ma quella ragazza...
- Ah, quella non è del mio paese, può darsi che al suo lo chiamino
così.
- E lui di che paese è?
- Be', gira...
La cavalcata fiancheggiava un frutteto di peri. I frutti erano maturi.
Con le lance i guerrieri infilzavano pere, le facevano sparire nel becco degli elmi, poi sputavano i torsoli. In fila in mezzo ai peri, chi vedono? Gurdulú-Omobò. Stava con le braccia alzate tutte contorte, come rami, e nelle mani e in bocca e sulla testa e negli strappi del vestito aveva pere.
- Guardalo che fa il pero! - diceva Carlomagno, ilare.
- Ora lo scuoto! - disse Orlando, e gli menò una botta.
Gurdulú lasciò cadere le pere tutte insieme, che rotolarono per il
prato in declivio, e vedendole rotolare non seppe trattenersi dal rotolare anche lui come una pera per i prati e sparì così alla loro vista.
- Vostra maestà lo perdoni! - disse un vecchio ortolano. - Martinzúl non capisce alle volte che il suo posto non è tra le piante o tra i frutti inanimati, ma tra i devoti sudditi di vostra maestà!
- Ma cos'è che gli gira, a questo matto che voi chiamate Martinzúl? - chiese, bonario, il nostro imperatore. - Mi pare che non sa manco cosa gli passa nella crapa!
- Che possiamo capirne noi, maestà? - Il vecchio ortolano parlava con la modesta saggezza di chi ne ha viste tante. - Matto forse non lo si può dire: è soltanto uno che c'è ma non sa d'esserci.
- O bella! Questo suddito qui che c'è ma non sa d'esserci e quel mio paladino là che sa d'esserci e invece non c'è. Fanno un bel paio, ve lo dico io!
Di stare in sella, Carlomagno era ormai stanco. Appoggiandosi ai suoi staffieri, ansando nella barba, bofonchiando: - Povera Francia! - smontò. Come a un segnale, appena l'imperatore ebbe messo piede a terra, tutto l'esercito si fermò e allestì un bivacco. Misero su le marmitte per il rancio.
- Portatemi qui quel Gurgur... Come si chiama? - fece il re.
- A seconda dei paesi che attraversa, - disse il saggio ortolano, - e degli eserciti cristiani o infedeli cui s'accoda, lo chiamano Gurdurú o Gudi Ussuf o Ben Va Ussuf o Ben Stanbúl o Pestanzúl o Bertinzúl o Martinbon o Omobon o Omobestia oppure anche il Brutto del Vallone o Gian Paciasso o Pier Paciugo. Può capitare che in una cascina sperduta gli diano un nome del tutto diverso dagli altri; ho poi notato che dappertutto i suoi nomi cambiano da una stagione all'altra. Si direbbe che i nomi gli scorrano addosso senza mai riuscire ad appiccicarglisi. Per lui, tanto, comunque lo si chiami è lo stesso. Chiamate lui e lui crede che chiamiate una capra; dite «formaggio» o «torrente» e lui risponde: «Sono qui».
Due paladini - Sansonetto e Dudone - venivano avanti trascinando di peso Gurdulú come fosse un sacco. Lo misero in piedi a spintoni davanti a Carlomagno. - Scopriti il capo, bestia! Non vedi che sei davanti al re!
La faccia di Gurdulú s'illuminò; era una larga faccia accaldata in cui si mischiavano caratteri franchi e moreschi: una picchiettatura di efelidi rosse su una pelle olivastra; occhi celesti liquidi venati di sangue sopra un naso camuso e una boccaccia dalle labbra tumide; pelo biondiccio ma crespo e una barba ispida a chiazze. E in mezzo a questo pelo, impigliati, ricci di castagna e spighe d'avena.
Cominciò a prosternarsi in riverenze e a parlare fitto fitto. Quei nobili signori, che finora l'avevano sentito emettere solo versi d'animali, si stupirono. Parlava molto in fretta, mangiandosi le parole e ingarbugliandosi; alle volte sembrava passare senz'interruzione da un dialetto all'altro e pure da una lingua all'altra, sia cristiana che mora. Tra parole che non si capivano e spropositi, il suo discorso era pressapoco questo: - Tocco il naso con la terra, casco in piedi ai vostri ginocchi, mi dichiaro augusto servitore della vostra umilissima maestà, comandatevi e mi obbedirò! - Brandì un cucchiaio che portava legato alla cintura. - ... E quando la maestà vostra dice: «Ordino comando e voglio», e fa così con lo scettro, così con lo scettro come faccio io, vedete?, e grida così come grido io: «Ordinooo comandooo e vogliooo!» voialtri tutti sudditi cani dovete obbedirmi se no vi faccio impalare e tu per primo lì con quella barba e quella faccia da vecchio rimbambito!
- Debbo tagliargli la testa di netto, sire? - chiese Orlando, e già snudava.
- Impetro grazia per lui, maestà, - disse l'ortolano. - È stata una delle sue sviste solite: parlando al re s'è confuso e non s'è piú ricordato se il re era lui o quello a cui parlava.
Dalle marmitte fumanti veniva odor di rancio.
- Dategli una gavettata di zuppa! - disse, clemente, Carlomagno. Con smorfie, inchini e incomprensibili discorsi, Gurdulú si ritirò
sotto un albero a mangiare.
- Ma che fa, adesso?
Stava cacciando il capo dentro alla gavetta posata in terra, come
volesse entrarci dentro. Il buon ortolano andò a scuoterlo per una spalla. - Quando la vuoi capire, Martinzúl, che sei tu che devi mangiare la zuppa e non la zuppa che deve mangiare te! Non ti ricordi? Devi portartela alla bocca col cucchiaio...
Gurdulú cominciò a cacciarsi in bocca cucchiaiate, avido. Avventava il cucchiaio con tanta foga che alle volte sbagliava mire. Nell'albero al cui piede era seduto s'apriva una cavità, proprio all'altezza della sue testa. Gurdulú prese a buttare cucchiaiate di zuppa nel cavo del tronco.
- Non è la tua bocca, quella! È dell'albero!
Agilulfo aveva seguito fin da principio con un'attenzione mista a turbamento le mosse di questo corpaccione carnoso, che pareva rotolarsi in mezzo alle cose esistenti soddisfatto come un puledro che vuol grattarsi la schiena; e ne provava una specie di vertigine.
- Cavalier Agilulfo! - fece Carlomagno. - Sapete cosa vi dico? Vi assegno quell'uomo lì come scudiero! Eh? Neh che è una bella idea?
I paladini, ironici, ghignavano. Agilulfo che invece prendeva sul serio tutto (e tanto piú un espresso ordine imperiale!), si rivolse al nuovo scudiero per impartirgli i primi comandi, ma Gurdulú, trangugiata la zuppa, era caduto addormentato all'ombra di quell'albero. Steso nell'erba, russava a bocca aperta, e petto stomaco e ventre s'alzavano e abbassavano come il mantice d'un fabbro. La gavetta unta era rotolata vicino a uno dei suoi grossi piedi scalzi. Di tra l'erba, un porcospino, forse attratto dall'odore, s'avvicinò alla gavetta e si mise a leccare le ultime gocce di zuppa. Così facendo spingeva gli aculei contro la nuda pianta del piede di Gurdulú e piú andava avanti risalendo l'esiguo rigagnolo di zuppa piú premeva le sue spine nel piede nudo. Finché il vagabondo non aperse gli occhi: girò lo sguardo intorno, senza capire da dove veniva quella sensazione di dolore che l'aveva svegliato. Vide il piede nudo, dritto in mezzo all'erba come una paladi fico d'India e, contro il piede, il riccio.
- O piede, - prese a dire Gurdulú, - piede, ehi, dico a te! Cosa fai piantato lì come uno scemo? Non lo vedi che quella bestia ti spuncica? O piedeee! O stupido! Perché non ti tiri in qua? Non senti che ti fa male? Scemo d'un piede! Basta tanto poco, basta che ti sposti di tanto così! Ma come si fa a essere così stupidi! Piedeee! E stammi a sentire! Ma guarda un po' come si lascia massacrare! E tirati in qua, idiota! Come te l'ho da dire? Sta' attento: guarda come faccio io, ora ti mostro cosa devi fare... - E così dicendo piegò la gamba, tirando il piede a sé e allontanandolo dal porcospino. - Ecco: era tanto facile, appena t'ho mostrato come si fa ce l'hai fatta anche tu. Stupido piede, perché sei rimasto tanto a farti pungere?
Si strofinò la pianta indolenzita, saltò su, si mise a fischiettare, spiccò una corsa, si gettò attraverso i cespugli, mollò un peto, poi un altro, poi sparì.
Agilulfo si mosse come per cercar di rintracciarlo, ma dov'era andato? La valle s'apriva striata da folti campi d'avena, e siepi di corbezzolo e ligustro, corsa dal vento, da folate cariche di polline e farfalle, e, su in cielo da bave di nuvole bianche. Gurdulú era sparito là in mezzo, in questo declivio dove il sole girando disegnava mobili macchie d'ombra e di luce; poteva essere in qualsiasi punto di questo o quel versante.
Da chissà dove si levò un canto stonato: - De sur les ponts de Bayonne...
La bianca armatura di Agilulfo alta sul costone della valle incrociò le braccia sul petto.
- Allora: quando comincia a prestar servizio lo scudiero nuovo? - l'apostrofarono i colleghi.
Macchinalmente, con voce priva d'intonazione, Agilulfo asserì: - Un'affermazione verbale dell'imperatore ha valore immediato di decreto.
- De sur les ponts de Bayonne... - si udì ancora la voce, piú lontana.

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