Capitolo 7

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A ognuna è data la sua penitenza, qui in convento, il suo modo di guadagnarsi la salvezza eterna. A me è toccata questa di scriver storie: è dura, è dura. Fuori è assolata estate, dalla valle giunge un vociare e un muover d'acqua, la mia cella è in alto e dalla finestretta vedo un'ansa del fiume, giovani villani spogliati che fanno il bagno, e, piú in là, dietro un ciuffo di salici, ragazze, che anch'esse tolte le vesti scendono a bagnarsi. Uno, nuotando sott'acqua ora è sbucato a vederle ed esse se lo indicano con gridi. Potrei esserci anch'io, e in bella comitiva, con giovani miei pari, e fantesche e famigli. Ma la nostra santa vocazione vuole che si anteponga alle caduche gioie del mondo qualcosa che poi resta. Che resta... se poi anche questo libro, e tutti i nostri atti di pietà, compiuti con cuori di cenere, non sono già cenere anch'essi... piú cenere degli atti sensuali là nel fiume, che trepidano di vita e si propagano come cerchi nell'acqua... Ci si mette a scrivere di lena, ma c'è un'ora in cui la penna non gratta che polveroso inchiostro, e non vi scorre piú una goccia di vita, e la vita è tutta fuori, fuori dalla finestra, fuori di te, e ti sembra che mai piú potrai rifugiarti nella pagina che scrivi, aprire un altro mondo, fare il salto. Forse è meglio così: forse quando scrivevi con gioia non era miracolo né grazia: era peccato, idolatria, superbia. Ne sono fuori, allora? No, scrivendo non mi sono cambiata in bene: ho solo consumato un po' d'ansiosa incosciente giovinezza. Che mi varranno queste pagine scontente? Il libro, il voto, non varrà piú di quanto tu vali. Che ci si salvi l'anima scrivendo non è detto. Scrivi, scrivi, e già la tua anima è persa.
Allora, volete che vada dalla madre badessa a supplicarla che mi cambi d'opera, che mi mandi a tirare l'acqua dal pozzo, a filar canapa, a sgranare ceci? Non serve. Continuerò secondo il mio dovere di monaca scrivana, meglio che posso. Ora mi tocca di raccontare il banchetto dei paladini.
Contro a tutte le regole imperiali d'etichetta, Carlomagno s'andava a mettere a tavola prima dell'ora, quando ancora non c'erano altri commensali. Si siede e comincia a spiluzzicare pane o formaggio o olive o peperoncini, insomma tutto quel che è già in tavola. Non solo, ma si serve con le mani. Spesso il potere assoluto fa perdere ogni freno anche ai sovrani piú temperanti e genera l'arbitrio.
Arrivavano alla spicciolata i paladini, nelle belle tenute da cerimonia che tra broccati e pizzi mostrano pur sempre le maglie di ferro degli usberghi, ma di quelle coi buchi larghi larghi, e corazze di quelle da passeggio, lustre come specchi ma che basta un colpo di stocco a farle in schegge. Primo Orlando che si mette alla destra di suo zio l'imperatore, poi Rinaldo di Montalbano, Astolfo, Angiolino di Baiona, Riccardo di Normandia e tutti gli altri.
All'estremo della tavolata s'andava a sedere Agilulfo, sempre nella sua armatura da combattimento senza macchia. Che cosa ci veniva a fare, a tavola, lui che non aveva né mai avrebbe avuto appetito, né uno stomaco da riempire, né una bocca cui avvicinare la forchetta, né un palato da innaffiare di vino di Borgogna? Eppure non manca mai a questi banchetti che si prolungano per ore - lui che saprebbe impiegarle ben meglio, quelle ore, in operazioni attinenti al servizio. Invece: ha diritto lui come tutti gli altri a un posto alla tavola imperiale, e lo occupa; e adempie al cerimoniale del banchetto con la stessa cura meticolosa che esplica in ogni altro cerimoniale della giornata.
Le portate sono le solite dell'esercito: tacchino farcito, oca allo spiedo, brasato di bue, maialini di latte, anguille, orate. I valletti non han fatto a tempo a porgere i vassoi che i paladini ci si buttano addosso, arraffano con le mani, sbranano, si sbrodolano le corazze, schizzano salsa dappertutto. C'è piú confusione che in battaglia: zuppiere che si rovesciano, polli arrosto che volano, e i valletti a strappar via i piatti di portata prima che un ingordo li vuoti nella sue scodella.
All'angolo della tavola dov'è Agilulfo invece tutto procede pulito, calmo e ordinato, ma ci vuole piú assistenza di servitori per lui che non mangia, che per tutto il resto della tavola. Prima cosa - mentre dappertutto c'è una confusione di piatti sporchi, tanto che tra una portata e l'altra non è nemmeno il caso di cambiarli e ognuno mangia dove capita, magari sulla tovaglia -, Agilulfo continua a chiedere che gli mettano davanti nuove stoviglie e posate, piatti, piattini, scodelle, bicchieri d'ogni foggia e capienza, forchette e cucchiai e cucchiaini e coltelli che guai se non sono ben affilati, ed è così esigente in fatto di pulizia, che basta un'ombra opaca su un bicchiere o una posata e li rimanda indietro. Poi si serve di tutto: poco, ma si serve; non lascia passare una portata. Per esempio, scalca una fettina di cinghiale arrosto, mette in un piatto la carne, in un piattino la salsa, poi taglia con un coltello affilatissimo la carne in tante striscioline sottili, e queste striscioline le passe una a una in un altro piatto ancora, dove le condisce con la salsa, finché non si sono imbevute ben bene; quelle condite le mette in un nuovo piatto, e ogni tanto chiama un valletto, gli dà da portar via quest'ultimo piatto e ne chiede uno pulito. Così si dà da fare per delle mezz'ore. Non parliamo del pollo, del fagiano, dei tordi: ci lavora ore intere senza mai toccarli se non con la punta di certi coltellini che richiede apposta e che fa cambiare piú volte per spolpare dall'ultimo ossicino la piú sottile e restia fibra di carne. Anche del vino si serve, e continuamente lo travasa e ripartisce tra i molti calici e bicchierini che ha davanti, e nappi in cui mescola un vino con l'altro, e ogni tanto porge a un valletto perché li porti via e li cambi con nuovi. Del pane fa un gran consumo: appallottola mollica di continuo in piccole sfere tutte uguali che dispone sulla tovaglia in file ordinate; la crosta la sminuzza in briciole, e costruisce con le briciole delle piccole piramidi: finché non se ne stanca e non ordina ai famigli che con uno scopino gli spazzolino la tovaglia. Poi ricomincia.
Con tutto il suo daffare, non perde il filo della conversazione che s'intreccia attraverso la tavola, e interviene sempre a tempo.
Di che parlano i paladini, a pranzo? Come al solito, si vantano.
Dice Orlando: - Devo dire che la battaglia d'Aspramonte si stava mettendo male, prima che io non abbattessi in duello il re Agolante e gli prendessi la Durlindana. C'era tanto attaccato che quando gli troncai di netto il braccio destro, il suo pugno restò stretto all'elsa di Durlindana e dovetti usare le tenaglie per staccarlo.
E Agilulfo: - Non per smentirti, ma esattezza vuole che Durlindana fosse consegnata dai nemici nelle trattative d'armistizio cinque giorni dopo la battaglia d'Aspramonte. Essa figura infatti in un elenco d'armi leggere cedute all'esercito franco. tra le condizioni del trattato.
Fa Rinaldo: - Comunque non c'è da mettere con Fusberta. Passando i Pirenei, quel drago che ho affrontato, l'ho tagliato in due con un fendente e sapete che la pelle di drago è piú dura del diamante.
Agilulfo interloquisce: - Ecco, vediamo di mettere in ordine le cose: il passaggio dei Pirenei è avvenuto in aprile, e in aprile, come ognuno sa, i draghi mutano la pelle, e sono molli e teneri come neonati.
I paladini: - Ma sì, quel giorno o un altro, se non era lì era in un altro posto, insomma è andata così, non è il caso di cercare il pelo nell'uovo...
Ma erano seccati. Quell'Agilulfo che ricorda sempre tutto, che per ogni fatto sa citare i documenti, che anche quando una impresa era famosa, accettata da tutti, ricordata per filo e per segno da chi non l'aveva mai vista, macché, voleva ridurla a un normale episodio di servizio, da segnalare nel rapporto serale al comando del reggimento. Tra quel che succede in guerra e quello che si racconta poi, da quando mondo è mondo è corsa sempre una certa differenza, ma in una vita di guerriero, che certi fatti siano avvenuti o meno, poco importa; c'è la tua persona, la tua forza, la continuità del tuo modo di comportarti, a garantire che se le cose non sono andate proprio così punto per punto, però così avrebbero potuto pure andare, e potrebbero ancora andare in un'occasione simile. Ma uno come Agilulfo non ha nulla per sorreggere le proprie azioni, vere o false che siano: o sono messe giorno per giorno a verbale, segnate nei registri, oppure è il vuoto, il buio pesto. E vorrebbe ridurre così anche i colleghi, queste spugne di Bordò e di vanterie, di progetti che voltano al passato senza che siano stati mai al presente, di leggende che dopo esser state attribuite un po' all'uno un po' all'altro finiscono sempre per trovare il protagonista che fa per loro.
Ogni tanto qualcuno chiama a testimone Carlomagno. Ma l'imperatore ha fatto tante guerre che confonde sempre l'una con l'altra e non ricorda bene neanche qual è quella che sta combattendo ora. Il suo compito è di farla, la guerra, e tutt'al piú di pensare a quella che verrà dopo; le guerre già fatte sono andate come sono andate; a quel che raccontano cronisti e cantastorie si sa che c'è da farci la tara; guai se l'imperatore dovesse star dietro a tutti a far rettifiche. Solo quando salta fuori qualche grana che ha ripercussioni sull'organico militare, sui gradi, sull'attribuzione di titoli nobiliari o di territori, allora il re deve dire la sua. La sua per modo di dire, si capisce: lì la volontà di Carlomagno conta poco, bisogna tenersi alle risultanze, giudicare in base alle prove che si hanno e far rispettare leggi e consuetudini. Perciò, quando lo interpellano, si stringe nelle spalle, si mantiene sulle generali e alle volte se la cava con un: «Ma! Chissà! Tempo di guerra, piú balle che terra!» e tira via. A quel cavalier Agilulfo dei Guildiverni che continua ad appallottolare mollica e a contestare tutte le vicende che - anche se riportate in una versione non del tutto esatta - sono le autentiche glorie dell'esercito franco, Carlomagno vorrebbe appioppare qualche noiosa corvé, ma gli hanno detto che i servizi piú fastidiosi sono per lui delle ambite prove di zelo, e quindi è inutile.
- Non vedo perché tu debba guardare tanto per il sottile, Agilulfo, - disse Ulivieri. - La gloria stessa delle imprese tende ad amplificarsi nella memoria popolare e ciò prova che è gloria genuina, fondamento dei titoli e dei gradi da noi conquistati.
- Non dei miei! - lo rimbeccò Agilulfo. - Ogni mio titolo e predicato l'ho avuto per imprese ben accertate e suffragate da documenti inoppugnabili!
- Con la cresta! - disse una voce.
- Chi ha parlato mi renderà ragione! - disse Agilulfo alzandosi.
- Calmati, sta' buono, - gli fecero gli altri, - tu che hai sempre da
eccepire sulle imprese degli altri, non puoi impedire che qualcuno trovi da ridire sulle tue...
- Io non offendo nessuno: mi limito a precisare dei fatti, con luogo e data e tanto di prove!
- Sono io che ho parlato. Anch'io preciserò - . Un giovane guerriero s'era alzato, pallido.
- Vorrei proprio vedere, Torrismondo, che tu trovassi nel mio passato qualcosa di contestabile, - disse Agilulfo al giovane, che era appunto Torrismondo di Cornovaglia. - Vuoi forse contestare, per esempio, che fui armato cavaliere perché, esattamente quindici anni fa, salvai dalla violenza di due briganti la vergine figlia del re di Scozia, Sofronia?
- Sì, lo contesterò: quindici anni fa, Sofronia, figlia del re di Scozia, non era vergine.
Un brusio corse per tutta la lunghezza della tavola.
Il codice della cavalleria allora vigente prescriveva che chi aveva salvato da pericolo certo la verginità d'una fanciulla di nobile lignaggio fosse immediatamente armato cavaliere; ma per aver salvato da violenza carnale una nobildonna non piú vergine era prescritta solamente una menzione d'onore e soldo doppio per tre mesi.
- Come puoi sostenere questa che è un'offesa non solo alla mia dignità di cavaliere ma a una dama che ho preso sotto la protezione della mia spada?
- Lo sostengo.
- Le prove?
- Sofronia è mia madre!
Grida di sorpresa si levarono dai petti dei paladini. Il giovane
Torrismondo non era dunque figlio dei duchi di Cornovaglia?
- Sì, nacqui vent'anni fa da Sofronia, allora tredicenne, - spiegò Torrismondo. - Ecco il medaglione della real casa di Scozia, - e
frugatosi in petto ne trasse una bolla appesa a una catenina d'oro.
Carlomagno che fin allora aveva tenuto viso e barba chinati su un piatto di gamberi di fiume, giudicò fosse venuto il momento di levare lo sguardo. - Giovane cavaliere, - disse dando alla sua voce la maggiore autorità imperiale, - vi rendete conto della gravità delle vostre parole?
- Pienamente, - disse Torrismondo, - e per me ancor piú che per altri.
C'era silenzio intorno: Torrismondo stava disconoscendo la sua filiazione dal duca di Cornovaglia, che gli era valsa, come cadetto, il titolo di cavaliere. Dichiarandosi bastardo, sia pur d'una principessa di sangue reale, egli andava incontro all'allontanamento dall'armata.
Ma ben piú grave era la posta in gioco per Agilulfo. Prima d'imbattersi in Sofronia aggredita dai malfattori e di salvarne la purezza, egli era un semplice guerriero senza nome in una armatura bianca che girava il mondo alla ventura. O meglio (come presto si era saputo) era una bianca armatura vuota, senza guerriero dentro. La sua impresa in difesa di Sofronia gli aveva dato diritto d'esser armato cavaliere; il cavalierato di Selimpia Citeriore essendo in quel momento vacante, egli aveva assunto quel titolo. La sua entrata in servizio e tutti i riconoscimenti, i gradi, i nomi che s'erano aggiunti poi, erano in conseguenza di quell'episodio. Se si dimostrava l'inesistenza d'una verginità di Sofronia da lui salvata, anche il suo cavalierato andava in fumo, e tutto quel che egli aveva fatto dopo non poteva esser riconosciuto come valido a nessun effetto, e tutti i nomi e i predicati venivano annullati, e così ognuna delle sue attribuzioni diventava non meno inesistente della sua persona.
- Ancor bambina, mia madre restò incinta di me, - raccontava Torrismondo, - e temendo le ire dei genitori quando avessero appreso il suo stato, fuggì dal castello reale di Scozia e andò vagando per gli altopiani. Mi diede alla luce al sereno, in una brughiera, e m'allevò vagando per campi e boscaglie dell'Inghilterra fino all'età di cinque anni. Questi primi ricordi sono quelli del piú bel periodo della mia vita, che l'intrusione di costui interruppe. Rammento il giorno. Mia madre m'aveva lasciato a guardia della nostra spelonca, mentre ella andava come al solito a rubar frutta nei campi. Incappò in due briganti da strada che volevano abusare di lei. Forse avrebbero finito per fare amicizia: spesso mia madre si lamentava della sua solitudine. Ma arrivò quest'armatura vuota in cerca di gloria e sgominò i briganti. Riconosciuta mia madre come di stirpe regale, la prese sotto la sua protezione e la condusse al piú vicino castello, quello di Cornovaglia, affidandola ai duchi. Io intanto ero rimasto nella spelonca, solo e affamato. Mia madre appena poté confessò ai duchi l'esistenza del figlioletto che aveva forzatamente abbandonato. Fui cercato da servi muniti di torce e portato al castello. Per salvare l'onore della famiglia di Scozia, legata ai Cornovaglia da vincoli di parentela, fui adottato e riconosciuto come figlio dal duca e dalla duchessa. La mia vita fu tediosa e oberata di costrizioni come sempre quella dei cadetti di nobili famiglie. Non mi fu piú dato di vedere mia madre, che prese il velo in un lontano convento. Il peso di questa montagna di falsità che ha distorto il corso naturale della mia vita m'ha gravato addosso fin qui. Ora finalmente sono riuscito a dire la verità. Qualsiasi cosa accada, per me sarà certo meglio di com'è stato finora.
A tavola s'era intanto servito il dolce, un pan di Spagna dagli strati sovrapposti di delicati colori, ma tant'era lo sbalordimento a quella sequela di rivelazioni che nessuna forchetta si levava verso le bocche ammutolite.
- E voi, cosa avete da dire su questa storia? - chiese Carlomagno ad Agilulfo. Tutti notarono che non aveva detto: cavaliere.
- Sono menzogne. Sofronia era fanciulla. Sul fiore della sua purezza, riposa il mio nome e il mio onore.
- Potete provarlo?
- Cercherò Sofronia.
- Pretendete di trovarla tal quale quindici anni dopo? - disse,
maligno, Astolfo. - Le nostre corazze di ferro battuto hanno una durata ben piú breve.
- Prese il velo subito dopo che l'avevo affidata a quella pia famiglia.
- In quindici anni, coi tempi che corrono, nessun convento della cristianità si salva da dispersioni e saccheggi, e ogni monaca ha il tempo di smonacarsi e rimonacarsi almeno quattro o cinque volte...
- Comunque, una castità violata presuppone un violatore. Lo troverò e avrò da lui testimonianza della data sino alla quale Sofronia poté considerarsi ragazza.
- Vi do licenza di partire all'istante, se lo desiderate, - disse l'imperatore. - Penso che in questo momento nulla vi stia piú a cuore del diritto di portare nome e armi, che ora vi viene contestato. Se questo giovane dice il vero, non potrei tenervi in servizio, anzi non potrei considerarvi sotto nessun punto di vista, nemmeno per gli arretrati del soldo - . E Carlomagno non poteva impedirsi dal dare al suo discorso un timbro di sbrigativa soddisfazione, come a dire: «Vedete che abbiamo trovato il sistema di liberarci di questo seccatore?»
L'armatura bianca ora pendeva tutta in avanti e mai come in quel momento aveva dato a vedere d'esser vuota. La voce ne usciva appena distinguibile: - Sì, mio imperatore, andrò.
- E voi? - Carlomagno si rivolse a Torrismondo. - Vi rendete conto che dichiarandovi nato fuor del matrimonio non potete rivestire il grado che vi spettava per i vostri natali? Sapete almeno chi sarebbe vostro padre? Avete speranza di farvi riconoscere da lui?
- Non potrò essere mai riconosciuto...
- Non è detto. Ogni uomo, giunto avanti negli anni tende a far tornare tutti i conti nel bilancio della sua vita. Anch'io ho riconosciuto tutti i figli avuti da concubine, ed erano molti, e certo qualcuno non sarà neanche mio.
- Mio padre non è un uomo.
- E chi è mai? Belzebú?
- No, sire, - disse calmo Torrismondo.
- Chi allora?
Torrismondo avanzò nel mezzo della sale, pose un ginocchio a
terra, levò gli occhi al cielo e disse: - È il Sacro Ordine dei Cavalieri del San Gral.
Un mormorio corse il banchetto. Qualcuno dei paladini si segnò.
- Mia madre era una bambina ardimentosa, - spiegò Torrismondo, - e correva sempre nel piú profondo dei boschi che circondavano il castello. Un giorno, nel fitto della foresta, s'imbatté nei Cavalieri del San Gral, là accampati per fortificare il loro spirito nell'isolamento dal mondo. La bambina si mise a giocare con quei guerrieri e da quel giorno ogni volta che poteva eludere la sorveglianza familiare raggiungeva l'accampamento. Ma in breve tempo, da quei giochi fanciulleschi, tornò incinta.
Carlomagno restò un momento pensieroso, poi disse: - I Cavalieri del San Gral hanno fatto tutti voto di castità e nessuno di loro potrà mai riconoscerti come figlio.
- Né io d'altronde lo vorrei, - disse Torrismondo. - Mia madre non m'ha mai parlato d'un cavaliere in particolare, ma m'ha educato a rispettare come padre il Sacro Ordine nel suo complesso.
- Allora, - soggiunse Carlomagno, - l'Ordine nel suo complesso non risulta legato a nessun voto del genere. Nulla vieta dunque che si riconosca padre d'una creatura. Se tu riesci a raggiungere i Cavalieri del San Gral e a farti riconoscere come figlio di tutto il loro Ordine considerato collettivamente, i tuoi diritti militari, date le prerogative dell'Ordine, non sarebbero diversi da quelli che avevi come figlio d'una nobile famiglia.
- Partirò, - disse Torrismondo.
Serata di partenze, quella sera, là nel campo dei Franchi. Agilulfo preparò meticolosamente il suo equipaggio e il suo cavallo, e lo scudiero Gurdulú arraffò a casaccio coperte, striglie, pentole, ne fece un mucchio che gli impediva di vedere dove andava, prese dalla parte opposta del suo padrone, e galoppò via perdendo per strada ogni cosa.
Nessuno era venuto a salutare Agilulfo che partiva, tranne che poveri stallieri, mozzi di stalla e fabbri di fucina, i quali non facevano troppe distinzioni tra l'uno e l'altro e avevano capito che questo era un ufficiale piú fastidioso ma anche piú infelice degli altri. I paladini, con la scusa che non erano avvertiti dell'ora della partenza, non vennero; e d'altronde non era una scusa: Agilulfo da quand'era uscito dal banchetto non aveva piú rivolto parola a nessuno. La sua partenza non fu commentata: distribuite le mansioni in modo che nessuno dei suoi incarichi restasse scoperto, l'assenza del cavaliere inesistente fu considerata degna di silenzio come per intesa generale.
L'unica a restarne commossa, anzi sconvolta, fu Bradamante. Corse alla sue tenda, - Presto! - chiamò governanti, sguattere, fantesche, - Presto! - e gettava all'aria panni e corazze e lance e finimenti, - Presto! - e lo faceva non come suo solito nello spogliarsi o in uno scatto d'ira, ma per mettere in ordine, per fare un inventario delle cose che c'erano, e partire. - Preparatemi tutto, parto, parto, non resto qui un minuto di piú, lui se n'è andato, l'unico per cui questa armata aveva un senso, l'unico che poteva dare un senso alla mia vita e alla mia guerra, e adesso non resta altro che un'accozzaglia di beoni e violenti me compresa, e la vita è un rotolarsi tra letti e bare, e lui solo ne sapeva la geometria segreta, l'ordine, la regola per capirne il principio e la fine! - E così dicendo indossava pezzo a pezzo l'armatura da campagna, la guarnacca color pervinca, e presto fu pronta in sella, mascolina in tutto tranne che nel fiero modo che hanno d'esser virili certe donne veramente donne, e spronò il cavallo al galoppo travolgendo palizzate e funi di tende e bancarelle di salumai, e presto sparì in un alto polverone.
Quel polverone vide Rambaldo che correva a piedi a cercarla e le gridò: - Dove vai, dove vai, Bradamante, ecco io son qui, per te, e tu vai via! - con quella testarda indignazione di chi è innamorato e vuol dire: «Son qui, giovane, carico d'amore, come può il mio amore non piacerle, cosa mai vuole costei che non mi prende, che non mi ama, cosa può volere di piú di quel che io sento di poterle e di doverle dare?» e così imperversa e non si dà ragione e a un certo punto l'innamoramento di lei è pure innamoramento di sé, di sé innamorato di lei, è innamoramento di quel che potrebbero essere loro due insieme, e non sono. E in questa furia Rambaldo correva alla sua tenda, preparava cavallo armi bisacce, partiva anch'egli, perché la guerra la combatti bene soltanto dove tra le punte delle lance intravedi una bocca di donna, e tutto, le ferite il polverone l'odore dei cavalli, non ha sapore che di quel sorriso.
Anche Torrismondo partiva quella sera, triste anche lui, anche lui pieno di speranza. Era il bosco che voleva ritrovare, l'umido oscuro bosco dell'infanzia, la madre, le giornate della grotta, e piú in fondo la pura confraternita dei padri, armati e veglianti attorno ai fuochi d'un nascosto bivacco, vestiti di bianco, silenziosi, nel piú fitto della foresta, i rami bassi che quasi sfiorano le felci, e dalla terra grassa nascono funghi che mai vedono il sole.
Carlomagno, levatosi dal banchetto un po' traballante sulle gambe, sentite tutte quelle notizie di improvvise partenze, s'avviava al padiglione reale e pensava ai tempi in cui a partire erano Astolfo, Rinaldo, Guidon Selvaggio, Orlando, per imprese che finivano poi nei cantari dei poeti, mentre adesso non c'era verso di muoverli di qui a lì, quei veterani, tranne che per gli stretti obblighi del servizio. «Che vadano, son giovani, che facciano», diceva Carlomagno, con l'abitudine, propria degli uomini d'azione, a pensare che il movimento sia sempre un bene, ma già con l'amarezza dei vecchi che soffrono il perdersi delle cose d'una volta piú di quanto non godano il sopravvenire delle nuove.

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