1- primo capitolo.

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Parte prima.

Come al solito fu sufficiente uno squillo, uno soltanto, per farmi spalancare gli occhi.
Dannata sveglia.
Tutte le mattine suonava alle 5:20 in punto, seguiva un'imprecazione, uno sbuffare nervoso, un gemito per alzarmi e un altro per riacquistare la lucidità.

Gettai i piedi fuori dalle coperte. In camera avevo uno specchio, uno di quegli aggeggi antichi con le rifiniture elaborate, quelli che di solito si trovano nei film d'epoca. Non ho mai saputo da dove provenisse, anche se mia madre una volta mi aveva detto che era stato un dono da parte del nonno, morto tanto tempo prima che io nascessi. È la versione che mi sono fatta bastare.

Accesi la luce e mi misi davanti lo specchio, che mi restituì il pallido e sbiadito riflesso di tutte le mattine. Mi passai una mano sopra i residui di matita e mascara impressi sotto gli occhi e sugli zigomi. Tipico. Non avevo l'abitudine di struccarmi prima di addormentarmi, perché non ne avevo il tempo: non appena la mia testa toccava il cuscino, crollavo.

Del resto, i miei turni al lavoro non aiutavano la situazione. Lavoravo al Joke, uno dei caffè più ricercati di Miami, nonostante fosse un orribile e fatiscente locale non più grande del mio bagno e il proprietario, Kit, fosse un ubriacone. Ottimi frappuccini, ottima pasticceria, erano i motivi per cui la gente decideva di recarvisi. La mia giornata cominciava così: mi alzavo all'alba, andavo al lavoro, dove sostavo per circa un paio d'ore, e poi facevo tappa a scuola. Quarto anno, l'ultimo. Ero a metà trimestre, il che significava che avevo davanti ancora sette mesi di tortura.
In realtà mi piaceva studiare, ma non mi applicavo. Solita scusa campata in aria dai professori.

Sbattei le palpebre e rovesciai la testa indietro, prima di decidermi ad aprire la porta e a scendere al piano di sotto, diretta in cucina.
Era immersa nella penombra. L'unica fonte di luce veniva dalla lampadina nel corridoio adiacente, che avevo acceso poco prima. Mi preparai un caffè, ignorando il lavello pieno dei piatti sporchi che mio padre, la sua compagna e il figlio di lei avevano lasciato la sera prima. La situzione era sempre la stessa: loro cenavano, sporcavano, se ne andavano a letto e pulire toccava a me. Ma quella mattina non lo avrei fatto. Mi stavo stancando. Avrei dovuto fargli presente che non ero la loro serva, prima o poi.
Indossai i miei jeans sbiaditi -che ormai mi stavano addosso come una seconda pelle- e la felpa nera che papà mi aveva comprato in sconto, per i miei quattordici anni. Anche quella era diventata quasi una parte di me.

L'auto era parcheggiata nel vialetto di casa. Calpestai l'acciottolato trascinando i piedi come se ci fossero attaccate delle catene, e mi infilai in macchina con un sospiro sconsolato. Se mi avessero vista in quelle condizioni, mi avrebbero di sicuro affibiato l'appellativo di zombie vivente.
Avevo dormito davvero poco quella notte, e faticavo a tenere gli occhi aperti. Avevo trascorso la serata con Jim, un mio compagno di scuola che frequentava quasi tutti i miei corsi. L'avevo sempre considerato un tipo rude, burbero, nonostante fosse terribilmente attraente. Poi un giorno aveva attaccato bottone, avevamo parlato, e avevo scoperto che mi piaceva anche il suo carattere. Tipica dimostrazione che, molto spesso, le apparenze ingannano. Non stavamo insieme. Non credevo che saremmo diventati una coppia, dal momento che avevo, come dire, delle strane abitudini.
Avevo diciassette anni e avevo già avuto innumerevoli esperienze con i ragazzi.
Derek Elliot, Kevin Spencer, primo anno. 
Scott Jensen, Simon e Matthew Riders,  secondo anno. William Johnson, Daniel Wilde, terzo anno. Ce n'erano stati altri, ma loro erano gli unici nomi che mi erano rimasti in mente.
Avevo passato con ognuno non più di qualche notte e mi ero fatta una nomina in quel liceo, ma non mi importava poi tanto. Se avevi un passato come il mio era difficile restare concentrata e non perdere la testa. Me ne vergognavo ma non riuscivo a fermarmi.
Jim era il primo ragazzo del quarto anno. Lui, però, mi piaceva veramente. Aveva accettato di uscire con me mettendo in chiaro fin da subito che non voleva alcuna storia seria. Ci ero rimasta male, ma avrei dovuto aspettarmelo. Nessuno vuole una storia seria con una ragazza da una botta e via.

Arrivai al Joke alle 6:00 in punto, in tempo perfetto per aprire il locale ma, una volta lì, scoprii che le serrande erano già alzate e che la luce era stata accesa.
Entrai in silenzio, richiudendomi la porta alle spalle. I capelli di Kit, il proprietario, spuntavano dal bancone in disordinati ciuffi color cioccolato.

-Kit!- esclamai, appoggiando la borsa sopra il tavolo alla mia destra. -Come mai sei già qui?-
Lo vidi trasalire appena, per poi sollevare lo sguardo verso di me.
-Buongiorno, Kathie- mi salutò con un sorriso. Sembrava un po' agitato, ma quando non lo era, in fondo?
-Volevo avvisarti di una cosa, prima che il locale si riempisse- mi spiegò, passandosi le mani sui calzoni. -Oggi dovrai sostituirmi per tutta la giornata, se possibile. Ho una commissione urgente da sbrigare e non ho nessuno che si occupi del turno serale.-
Inarcai un sopracciglio, reprimendo uno sbadiglio.
-Kit- replicai, -sai che vorrei accontentarti, ma francamente stanotte non ho dormito molto e poi... non me la sento di saltare la scuola.
-Kathie, non prendermi in giro!- scoppiò a ridere, scuotendo la testa. Aveva circa una quarantina d'anni ma in quel momento sembrò molto più giovane, un ragazzino nel corpo di un adulto. -So che quella scuola la detesti- riprese, cercando di darsi un contegno. -E ho sentito le voci che girano su di te. Perciò più lontano le stai, meglio è.
Serrai le labbra. Aveva ragione, lo sapevo. Ma non spettava a lui, di certo, dirmi che cosa dovevo fare. Del resto, però, si era sempre dimostrato disponibile, da quando avevo iniziato a lavorare lì, mi aveva sempre permesso di andarmene quando volevo, e mi aveva aggiunto qualche spicciolo in più allo stipendio degli ultimi mesi.
-E va bene- acconsentii con un sospiro. -Ma se mi accadrà qualcosa mentre sono ai lavori forzati, mi avrai sulla coscienza- scherzai, avviandomi nel retro del bancone, dove indossai la divisa del locale e il cappellino con sopra stampata la scritta Joke.
-Giusto per curiosità- dissi poi, avvicinandomi a lui. -Jack non c'è?-
Jack era l'altro ragazzo che lavorava lì, con il quale avevo scambiato non più di qualche parola, dal momento che era un esemplare di maschio estremamente silenzioso e riservato.
-Potrebbe fare lui il turno di sera, no?-
Kit scosse la testa. -È malato. Ha chiamato ieri sera per avvisare che oggi non sarebbe venuto, perciò mi dispiace, Kathie, ma tocca a te.-
Mi strizzò l'occhio e poi mi passò accanto, per scendere dal bancone.
-Bene, io vado- disse, prendendo il giaccone dal retro e gettandoselo in spalla. -Mi raccomando, mi affido a te.-

Detto questo si dileguò, lasciandomi sola in quel piccolo locale che presto, sapevo con certezza, si sarebbe riempito di gente in cerca dei migliori frappuccini di Miami.

Trapped. Where stories live. Discover now