Nove

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Kate tornò in ufficio dopo un'assenza di qualche ora, dovuta a un'interminabile riunione che si era protratta all'infinito e durante la quale si era annoiata esattamente per come si era aspettata. Gli aspetti amministrativi del suo ruolo di capitano erano quelli di cui avrebbe fatto volentieri a meno.

Ancora assorta dalle questioni di cui avevano discusso e intenta a scorrere le chiamate perse sul suo cellulare, uscì distrattamente dall'ascensore che aveva raggiunto il suo piano senza quasi che se ne rendesse conto.
Appena ebbe messo piede oltre le porte aperte, si bloccò confusa, con la sensazione che qualcosa non fosse al solito posto - un'impressione a livello epidermico a cui aveva imparato a dar credito - senza che i suoi occhi notassero nulla di diverso rispetto al solito.
Dopo una valutazione generica, le sembrò che tutto fosse normale, come era sempre stato. Scrollò la testa, pronta ad accantonare la strana sensazione e a tuffarsi negli impegni pomeridiani che l'attendevano.
Fu proprio allora che si rese conto che nel suo campo visivo si era registrata, a livello non cosciente, una presenza imprevista capace di mettere in lieve allarme i suoi sistemi di rilevazione dell'entropia, ma allo stesso tempo, abbastanza familiare da passare inosservata grazie all'intervento automatico della memoria visiva.
Castle era seduto dandole le spalle, su una sedia che non riconobbe, vicino a quella che era stata la sua scrivania, su cui era appoggiato con un braccio, e che adesso apparteneva a un altro detective, fortunatamente assente.
Kate smise di avanzare, avviluppandosi in se stessa, come meccanismo di difesa. Si era immaginata così spesso, con la forza della disperazione, di vederlo seduto accanto a lei in un giorno qualunque, a fare tutto e niente, che, inizialmente, non credette ai suoi occhi, convincendosi che doveva trattarsi di una delle sue solite fantasie, rafforzate dalla confusione dell'ultimo periodo e una certa cronica mancanza di sonno per via delle notti agitate di Alex, che faceva da specchio al suo animo inquieto.
Non poteva trattarsi di Castle, che a quell'ora era di certo nella sua camera privata all'ospedale, impegnato ad assillare i medici per farsi dimettere.
Oppure... era proprio lui? Poteva essere passato del tempo, ma era ancora in grado di riconoscere perfettamente mille dettagli del suo corpo, anche da dietro.
Nessuno notò il suo arrivo, nemmeno lui, che rimase immobile a fissare qualcosa davanti a sé, senza il minimo sospetto.
A ogni passo, mosso con cautela per non fare rumore e coglierlo di sorpresa, si rafforzava in lei la sicurezza che si trattasse davvero di Castle in persona. Forse era fuggito dall'ospedale. Per quanto fantasiosa, era un'ipotesi molto plausibile, trattandosi di lui.

"Castle?", lo apostrofò appoggiandogli una mano sulla spalla, facendolo sobbalzare. Un riflesso incondizionato, dovuto a chissà quali esperienze spiacevoli e ripetute nel tempo, pensò. Si voltò verso di lei, sulle labbra il sorriso di chi si era lungamente preparato a lusingarla, perché non si infuriasse con lui.
"Che cosa ci fai qui? Dovresti essere... ", ovunque tranne che qui. "In ospedale!".
Nonostante lo trovasse più in forma rispetto al solito, grazie al fatto di vederlo in un ambiente diverso e non in tenuta ospedaliera, non poté non notare che le sue guance tendevano verso una sfumatura grigiastra, nonostante la giovialità che si sforzava di ostentare.
Quando si alzò, si accorse che i vestiti, che erano i suoi di un tempo, erano troppo larghi, circostanza che contribuiva a dargli un'aria allampanata e dimessa che le strinse un po' il cuore per la pena. Stava male ed era affaticato, era innegabile.
Si impose però di non mostrarsi indulgente: il motivo per cui era tanto pallido era proprio quello che avrebbe dovuto imporgli di rimanere a letto, invece di andarsene in giro senza nessuna sorveglianza.
"Ciao, Kate", la salutò allegro. Sembrava felice di essere lì.
Sentendo di nuovo la sua voce tra quelle mura, Kate si sorprese a pensare che era proprio come se non se fosse mai andato. Era stata davvero costretta a vivere senza di lui, per tutti quei giorni?
"Non hai risposto alla mia domanda". Incrociò le braccia e si predispose ad ascoltare quella che, invariabilmente, sarebbe stata una spiegazione molto ingegnosa.
"Voglio vedere Alex", ammise con grande semplicità. Sembrava molto determinato. Kate deglutì nervosamente, dandosi una rapida occhiata in giro. Non voleva che le persone non appartenenti alla famiglia allungassero le orecchie per partecipare a una conversazione che non li riguardava.
Decisamente era finito il tempo in cui Castle prendeva gli argomenti alla larga. Almeno, non per quanto riguardava suo figlio.
"È meglio se vieni nel mio ufficio", gli ordinò a voce bassa, con un tono che non ammetteva nessuna replica.
La seguì docilmente, forse perché si era convinto, vista la sua mancanza di una reazione più incisiva, di aver vinto la partita. Non era affatto così. Voleva solo che non ci fossero testimoni.
Lo fece accomodare davanti alla sua attuale scrivania, con un gesto imperioso della mano, mentre si accertava di sigillare tutte le veneziane e bloccare la porta, per proteggerli da sguardi curiosi. Per fortuna, a quell'ora la maggior parte dei detective era fuori, compresi gli amici di un tempo.
Si sedette con molta calma davanti a lui, per non mostrargli il tremito interiore. Castle sembrava molto più a proprio agio di lei, mentre si guardava intorno soddisfatto.
"Dovrei dirti che mi sembra strano vederti in questo ufficio, ma non è così. Ho sempre saputo che saresti finita qui, prima o poi", esclamò soddisfatto, la voce carica di orgoglio per il suo successo.
Kate arrossì, anche se non se lo poteva permettere. Ma non volle abboccare ai suoi tentativi diversivi.
"Non mi hai ancora dato una spiegazione ragionevole sul perché sei qui invece che in ospedale. Non mi sembrava che i medici avessero intenzione di dimetterti tanto presto". Tutto il contrario, a dar retta ai loro dinieghi inappellabili, l'ultima volta che Castle li aveva implorati di lasciarlo libero e lei era stata presente. Sospettava che fosse stata una scena che si era ripetuta molto spesso, soprattutto in sua assenza.
"Te l'ho data. Solo che tu hai preferito cambiare discorso".
Lo guardò interrogativamente. "Parti dall'inizio", lo invitò, senza dargli retta.
Castle sospirò, forse un po' irritato dai suoi tentativi di temporeggiare. "Ok. Ero stanco di rimanere in ospedale. Mi sentivo meglio e quindi ho deciso di firmare per potermene andare. La responsabilità è mia, i medici erano contrari", ammise senza nessun senso di colpa, cercando di farla molto breve.
"Non credi che avessero ragione a esserlo? Forse non stai ancora bene ed è quello il motivo per cui insistevano per trattenerti, non perché si divertissero a infastidirti".
Sapeva di aver assunto un tono molto irritante, ma non aveva potuto evitarlo. Anzi, scivolare nel suo solito ruolo autorevole di fronte a soggetti poco disposti a collaborare serviva a darle una certa sicurezza.
"Come ho detto prima, la responsabilità è unicamente mia", replicò asciutto, con tono definitivo. Era evidente che non solo aveva pianificato con cura le sue azioni, ma che non intendeva né giustificarsi, né trascinare l'argomento per le lunghe. Le dava l'idea di una persona che non aveva tempo da perdere. E lei era quella colpevole di mettergli i bastoni tra le ruote.
"Posso vedere Alex?", aggiunse dopo qualche istante, senza divergere dalla sua intenzione primaria. Kate si irrigidì, cominciando a innervosirsi per la sua testardaggine.
Si alzò in piedi e raggiunse lentamente la finestra, le mani affondate nelle tasche della giacca, prolungando un silenzio per niente amichevole.
"Pensavo avessimo deciso di fare le cose con calma, in merito alla questione", puntualizzò, guardando il panorama di fronte a sé, senza rivolgersi a lui.
"Voglio solo vederlo, Kate", ripeté Castle come un disco rotto.
Dovette ricorrere a tutta la sua pazienza per non risultare troppo aggressiva.
"Stai pensando solo a te stesso, come sempre". La pazienza non era bastata. Perché non capiva che dovevano preoccuparsi solo del bene di Alex? Perché doveva fare sempre di testa sua?
"Non pretendo di incontrarlo, Kate. Solo di dargli un'occhiata da lontano". Si era girato verso di lei, alzando impercettibilmente la voce, che era diventata più supplichevole. "Dov'è adesso?".
La domanda la mise in allarme. "Perché? Vuoi andare a rapirlo?", si lasciò sfuggire con sarcasmo.
Lo sguardo ferito che le rivolse la fece sentire una persona orribile. E ingiusta.
"Sai, Kate, finora ho aspettato che mi dessi il permesso di vederlo, credendo alle tue giustificazioni. Comincio invece a sospettare che tu non voglia che io lo incontri. Che, anzi, tu lo stia tenendo lontano da me di proposito", affermò con grande pacatezza.
L'accusa penetrò fino in fondo alle sue carni. Se la vide piombare addosso precisa e affilata, per andare a infilarsi nel posto dove l'aveva sempre attesa.
"Come ti permetti di dire una cosa del genere?!", ringhiò, voltandosi a fronteggiarlo furente. "È dal giorno che è nato che desidero che vi incontriate, da quando ho partorito e tu non eri presente!".
Perché le stava facendo questo? Perché la costringeva a disseppellire ricordi che non mancavano di ridurla in pezzetti minuscoli?
"Ti ho già chiesto scusa centinaia di volte per non esserci stato, Kate. Non so più cosa fare".
Lo fissò, sgomenta. "È questo che pensi, Castle? Che te lo tenga lontano perché sono arrabbiata per la tua assenza?", bisbigliò incredula.
Sì, era quello che pensava. Lo capì dal suo sguardo colpevole.
Si schiarì la voce. "Forse è meglio che tu vada. Questa conversazione non fa onore a nessuno dei due". Si avvicinò alla porta per aprirla e invitarlo a lasciare il suo ufficio. "Alex è al nido, al primo piano di questo edificio. Fai quello che credi meglio", concluse amareggiata.
Castle non si mosse dalla sedia. "Ti prego, Kate". Alzò gli occhi, implorante. "Possiamo parlarne civilmente? Non voglio andare via. Non voglio rapirlo, o incontrarlo senza di te. Per favore, possiamo fare un passo indietro?".
No, non voleva farlo, ma non ebbe altra scelta, se non quella di mostrarsi civile e conciliante, come stava cercando di mostrarsi lui. Era a lei che erano saltati i nervi, e non capiva perché.
Acconsentì e tornò a sedersi di fronte a lui.
"Non penso che tu lo stia tenendo lontano volutamente", specificò Castle.
Non era quello che aveva detto prima, ma apprezzò che stesse tentando di moderare i toni. "Credo solo che tu sia protettiva". Si arrischiò a guardarla, per giudicare fin dove potesse spingersi. "Molto protettiva. Ed è giusto, considerando che l'hai cresciuto da sola. Ma... mi stai lasciando fuori". Alzò una mano per bloccare la sua replica. "Lo so che dobbiamo fare con calma, per non scombussolarlo. Ma dobbiamo iniziare da qualche parte. Magari... posso guardarlo da una finestra, senza che lui mi veda?", propose timidamente.
Lo fissò, lievemente beffarda. "Castle, sai, vero, che all'asilo non ci sono le finestre a specchio che abbiamo nella stanza degli interrogatori? Se tu riesci a vederlo, sarà in grado di farlo anche lui", spiegò con irritante pazienza.
"Non penso che possa essere turbato dal vedere di sfuggita un uomo che non conosce", ribatté lui con la stessa logica.
"Il nido è un posto controllato, possono entrare solo le persone autorizzate, non chiunque. Hanno una politica molto severa, in questo senso. Quindi Alex non si aspetta di vedere sconosciuti dietro a un vetro".
"Mi fa piacere che stia in un posto così sicuro", cominciò Castle, con grande diplomazia. Era chiaro che non aveva più argomenti sensati da opporle, ma che non avrebbe ceduto. "Ma non posso aspettare un altro giorno senza vederlo, Kate. Come fai a non capirlo? Mi metterò un sacchetto in testa. Farò tutto quello che vuoi. Per favore?". Le fece una della sue vocine.
Kate scoppiò a ridere, anche se era l'ultima cosa che voleva fare.
"Credo che questo lo spaventerebbe davvero", commentò divertita. La tensione tra loro si affievolì.
"Castle", riprese dopo una pausa passata a ponderare la questione. "Non voglio tenerlo lontano da te. Voglio solo fare le cose nel modo giusto. So di essere molto protettiva con lui, ma non ho mai voluto tenervi separati più a lungo del necessario. Se mi prometti di...".
"È un sì?", commentò esultante.
Kate gemette. Aveva sentito quello che aveva detto? Temeva di no. Lasciò perdere ulteriori spiegazioni.
"Prima dobbiamo chiedere il permesso a Lisa", lo informò con grande serietà.
"Chi è Lisa?", domandò disorientato.
"Il cane da guardia di Alex", gli rispose come se fosse la cosa più naturale del mondo.
"Voi avete un cane? Devono essere cambiate moltissime cose in mia assenza".
Era così comicamente confuso da farla scoppiare a ridere di nuovo.
"No, è una delle persone che si occupa di lui. Se pensi che io sono... protettiva", calcò bene la voce nel pronunciare quella parola che aveva iniziato a trovare detestabile, "È perché non l'hai ancora incontrata. Se lei non vuole farti scendere, temo di non avere nessuna autorità. Farò il possibile", gli fece l'occhiolino per avvertirlo che stava scherzando, ma non ne era così sicura. Lisa poteva essere un avversario formidabile, quando si trattava di Alex.

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