Parte prima

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Muovo le mani piegate a cucchiaio verso l'acqua che scende dal rubinetto. Si confonde con il sangue e un brivido mi solca la schiena. Dicono che quando la pelle si arriccia in questo modo è perché la morte ti è passata di fianco. La mia morte invece vive con me. Non smetterò di rabbrividire, dunque.

Alzo lo sguardo sullo specchio e mi osservo. I miei capelli biondi un tempo erano lisci e setosi, adesso non sembrano altro che rami e foglie accartocciati. Dovrei pettinarli, ma in fondo penso non ne valga neppure la pena: so bene quanto gli piaccia prendere le mie ciocche a piene mani per trascinarmi come un sacco di rifiuti umani. So quanto lo facciano sentire grande quelle grida che mi scavano il petto, che saltano fuori dalla mia voce spezzata ogni volta che il dolore mi sorprende e non posso fare a meno di urlare. Vorrei non dargli quella soddisfazione che gli leggo nello sguardo quando può sentire che mi sta facendo davvero male, tuttavia so che non posso sempre trattenermi. Quando arriva di soppiatto e vuole addolorarmi, il più delle volte rimango semplicemente vittima della sua oppressione. Del resto non sono altro che una schiava nelle sue mani e riconosco che, ogni giorno di più, il ruolo che mi ha affibbiato si cuce su di me come una seconda pelle.

I miei occhi azzurri un tempo erano lucenti, ora appaiono spenti e privi di vita. Dove sono finita?
Se è vero che la si può leggere da uno sguardo, l'anima risulta appiattita e priva di contenuti. Mi ha scuoiato, mi ha rubato l'essenza.

Osservo il taglio che ho sul sopracciglio e so che questa volta neppure un buon fondotinta riuscirà a coprire quella ferita. Mi chiedo quale parte di me deciderà di massacrare, domani. Forse un occhio? Lo stomaco, magari, deve piacergli tanto la sensazione di quel pugno che esplode nel mio grembo. Perché dovrebbe trattenersi dal rompermi qualche costola?

A volte mi osserva con i suoi occhi muti ma pieni di crudeltà e sembra voler trovare quella parte del mio corpo che ancora non ha distrutto, che non ha tramutato in lividi, ematomi o lesioni, che non ha ancora marchiato a fuoco. Dentro di sé, negli attimi che precedono l'assalto, lui sceglie cosa colpire. Oggi ha deciso che nessun pugno avrebbe potuto soddisfare la sua sete di sangue; oggi mi ha preso per i capelli e mi ha sbattuto con tutta la forza che possiede contro il davanzale della camera da letto.
Il motivo? Non volevo che abusasse di me. Ho pensato che fosse troppo, che non fossi più sufficientemente capace di resistere ad un tale abominio. Ma non è forse vero che quel troppo è già stato superato da un bel po'?
Quando diventa impossibile resistere ancora? Quando sarò capace di dire basta?

✻✻✻

All'alba del nostro primo incontro mi era sembrato un uomo invitante e con un certo fascino. Aveva ricambiato il mio interesse immediatamente, come se ci fossimo cercati a lungo e finalmente fossimo riusciti a trovarci. Dovevamo essere proprio due anime affini.
Fin dal principio era sorta in me una felicità cieca ed incandescente. Mi sembrava impossibile, meraviglioso, ineffabile. Io che ero stata sconfitta sin dall'infanzia dal rapporto malato dei miei genitori, finalmente potevo dirmi più forte di mia madre, più abile ad amare. Ero salva, dunque, avevo appena trovato la mia metà.

Al pari di un buon commerciante, si era venduto dimostrandosi come il miglior prodotto in circolazione.
Certo, aveva qualche falla, ma doveva essere a causa della sua terribile infanzia, o almeno così mi raccontavo. Mi piaceva che avesse quei vuoti da riempire: sarei stata io a colmarli, lo avrei amato sopra ogni cosa, persino più di me stessa. Non sarei riuscita a frenare la mia voglia di salvarlo. Credevo che avesse bisogno di affetto, anche quando a volte si rabbuiava e sul suo volto parevano passare delle ombre oscure; persino quando i suoi modi divenivano rudi e cavernicoli: mi sentivo in grado di illuminare le sue tenebre.
Ero attratta dalla poca luce che emanava, mi eccitava il pensiero di poter essere io quel barlume di splendore che avrebbe potuto ravvivare la sua esistenza.
L'idea che potessi salvarlo mi faceva sentire importante, indispensabile. Inconsapevolmente speravo che lui potesse fare lo stesso nei miei riguardi, che arrivasse a lenire le mie ansie, che rischiarasse le mie paure e le riempisse del calore di un abbraccio capace di proteggermi e calmare i tremori del mio fragile cuore. Credevo che potesse sedare i miei tormenti, che potessimo insegnarci ad amare.

Quella che sostenevo fosse una luce infinita, si spezzò in un fulmine, in un giorno qualunque.
Al primo schiaffo, pianse subito dopo. Mi chiese scusa, inginocchiandosi. Non riuscii a resistere e lo giustificai credendo avesse agito a causa del lavoro, spinto dal nervosismo e dallo stress. Era sicuramente colpa di quelle notti insonni passate a faticare per noi, per costruirci un futuro migliore, più solido. Non lo avrebbe rifatto mai più, lo aveva promesso. Del resto tutti possiamo sbagliare, non dovevo essere troppo dura nei suoi confronti, dovevo essere fiduciosa e perdonarlo.

Ciò che ignoravo era che quelle scuse si sarebbero triplicate, di giorno in giorno sempre di più, fino a sparire del tutto. Ad un tratto non avrebbe più cercato giustificazioni, non avrebbe più chiesto il mio perdono: avrebbe iniziato a provare piacere a picchiarmi e pretendere che fossi schiava dei suoi abusi.

Fu esattamente così che iniziò a masticare il mio cuore riducendolo in briciole e polvere, rubandomi la forza vitale sufficiente a reagire.

✻✻✻

Cerco di raccogliere il sangue con qualche fazzoletto e il dolore mi costringe a far zampillare qualche lacrima dai miei occhi. La sofferenza sorda e agghiacciante che mi travolge mi costringe a piegarmi su me stessa con il desiderio di non respirare più. Ci vorrebbe un po' di coraggio, una manciata di audacia per farla finita, semplicemente, per non restare legata al mio supplizio devastante. Vorrei potermi lasciare andare, vorrei che il tormento si assopisse.

Sarebbe bello, forse, addormentarsi per non svegliarsi più. Pian piano, con la dolcezza di un addio che sa di libertà.

«Mammina?»

Quella voce flebile e pura mi colpisce in pieno, mi basta per sentirmi patetica. È assurdo, penso a come sarebbe bello farla finita ma so di non potermelo proprio permettere.
Dietro a quella porta c'è qualcuno che non potrei mai lasciare solo, per cui sopporterei altri millenni di soprusi e, nonostante lo sconforto mi faccia spesso delirare, non mi soffermo neanche un ulteriore istante su quelle idee malsane.

«Josh, amore. Un attimo, sto uscendo.» Dico di fretta e cerco di cancellare le scie umide che le lacrime cocenti hanno lasciato sul mio viso ormai piuttosto paonazzo.
Rovisto nella cassetta di primo soccorso alla ricerca di una garza o un cerotto capace di contenere la mia ferita.
Fingo di poterla coprire, almeno superficialmente, come se nel mio cuore non avessi tutte quelle lesioni sanguinanti impossibili da asciugare.

Poco prima di uscire dal bagno chiudo un istante gli occhi; sospiro profondamente come in attesa di esser pronta ad indossare la maschera impettita che davanti a mio figlio di soli otto anni devo portare.

«Ti sei fatta male?»

Lo accolgo con un sorriso, tuttavia questo sembra non bastare. Come potrebbe?

«Ho sbattuto contro la porta, non è niente di che... Solo un taglietto.» Mi soffermo a guardarlo e mi abbasso di poco per poter incontrare quei suoi occhioni blu capaci di rischiarare qualsiasi mia grigia giornata. Corruccio di poco la fronte quando vedo la sua mano avvicinarsi al mio viso e le sue dita percorrere lente i contorni della garza che nasconde il mio dolore.

«Non voglio più che ti fai male.» Abbassa lo sguardo e ritrae la mano, d'un tratto sembra sfuggirmi. Si fa piccolo piccolo, ancor di più di quello che è, come a voler dimostrare il suo disagio. Mi colpisce, in un attimo mi annienta.

«Succede sempre.» Continua, ed io non trovo subito l'audacia sufficiente a ribattere. Alza lo sguardo di nuovo, come se avesse appena trovato la forza di un gigante ed avesse più coraggio di quello che in fin dei conti ho io: con le sue iridi sembra voler affrontare qualcosa che nelle mie, invece, tenta di fuggire e di dissolversi.

«Farò più attenzione, ok? Non preoccuparti, la mamma sta bene. Andiamo a fare colazione?» Scovo in me le parole che mi permettono di chiudere quella conversazione.
Inizio a sentirmi in ansia, come se avessi un parassita nello stomaco che pian piano risucchia via la mia linfa vitale.

Erroneamente, ho sempre creduto che il mio bambino fosse salvo.

Non voglio che veda il mio malessere, non posso sopportare l'idea che sappia. Non riesco a resistere dinanzi a quello sguardo così tanto simile al mio, così fragile, così vero. Voglio proteggerlo, devo farlo.

Rimaniamo in silenzio a lungo. Accendo la tv con la speranza che quelle immagini e quei suoni riescano a riempire il vuoto che c'è tra di noi. Mi sento sporca, soprattutto quando scopro che mi osserva. Vuole leggere tra le righe dei miei gesti, sembra averli decifrati... Al solo pensiero mi trema il cuore.

L'idea che possa avere anche solo lontanamente capito mi distrugge.

Frammento di LuceWhere stories live. Discover now