PER LA PRIMA VOLTA, DOPO UN'INFINITA ATTESA

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FLAVIO

Per l'intero pomeriggio resto fossilizzato sulla panchina a osservare l'andirivieni di persone, pensando al modo migliore per irrompere nella vita di Giuditta.


Controllo milioni di volte l'orologio nella speranza di affrettare lo scorrere del tempo, le lancette sul quadrante sembrano essersi incagliate e la percezione di un solo minuto diventa insopportabile. Sono le diciannove e trenta quando Giuditta esce fuori sotto la luce del flebile sole.


Il cuore mi esplode nel petto, letteralmente.


Devo solo alzarmi e muovere qualche passo verso di lei, poi, sono certo, troverò le parole giuste per interagire. Le gambe, però, sono paralizzate. C'è qualche strano impulso dentro che mi impone di aspettare, che mi trattiene dal rincorrerla, afferrarla per un braccio e dirle: «Sono qui, Giù. Non mi è mai passata, Giù. Credo di amarti ancora, Giù».


E Giuditta mi passa davanti, cammina veloce. Non mi vede. La sua figura a mano a mano rimpicciolisce per poi scomparire dietro un albero.


«Maledizione!» Tiro un calcio alla panchina, e corro nella sua direzione per intercettarla con lo sguardo oltre gli smilzi rami della florida vegetazione nelle aiuole, oltre i pali della luce e le persone che camminando si frappongono tra me e lei.


Eccola, la vedo. È dall'altra parte della strada che entra nella sua macchina. La macchina di sempre. Quella dei giorni felici, del traffico in centro a Milano e dei parcheggi in divieto di sosta. La mia moto è quattro automobili dietro la sua Cinquecento.


Un rapido salto sulla sella, il casco sembra scivolarmi dalle mani tanto sono agitato e mentre allaccio il cinturino sotto il mento, lei parte.


Il rombo della moto è un grido che rompe il silenzio sulla strada poco trafficata; la seguo con l'accortezza di mantenere un profilo basso.


Costeggiamo per diversi chilometri le spiagge del lungomare, poi la Cinquecento inserisce la freccia a destra e parcheggia poco dopo. Giuditta scende dalla macchina e recupera la sua borsa e delle cartelline, si ferma dinanzi a un cancello, infila la chiave, apre e scompare dalla mia vista.


Ho l'impressione di aver fatto una maratona, di essermi iniettato in vena una quantità spropositata di adrenalina. E così, con le mani sudate e l'ansia che rende ancora più confuse le mie prossime mosse, scendo dalla moto e cammino verso il villino che affaccia sul mare.


Quando raggiungo l'entrata non riesco a premere il pulsante del campanello, le dita sono paralizzate dalla paura. Io, davvero, non so cosa fare, come comportarmi, da dove iniziare.


Passo diverso tempo seduto sullo scalino di un bar lì di fronte, più volte mi affaccio oltre il cancello, arrampicandomi sul muretto basso che lo circonda e allungando il collo oltre la siepe. Proprio mentre sono intento a cercare una fessura in grado di offrirmi una buona visione, un uomo passa di qui e resta a fissarmi insistentemente; io mi ritrovo a reprimere l'insano istinto di tirargli un pugno sul naso.


Idiota, sono qui perché credo di amare ancora la donna che vive in questa casa e la spio perché sto cercando il modo migliore per evitare che le prenda un colpo quando mi vedrà.

L'attesaWo Geschichten leben. Entdecke jetzt